Pubblichiamo integralmente
questa lettera di un condannato a morte della Resistenza Italiana che ci ha
sollecitato una serie di riflessioni riguardanti i temi della democrazia e
della partecipazione. Abbiamo sottolineato nel testo alcune parti per noi particolarmente
significative per la loro vicinanza all’attualità sociale e politica. Ci ha
molto meravigliato trovare così strette analogie tra i modi in cui si
esprimevano, durante il periodo fascista e la guerra, la società civile e la politica e quanto accade attualmente
intorno a noi. Ci riferiamo, per esempio, alla distanza che la politica e gli
amministratori mettono sempre più tra loro e i cittadini, ritenendosi gli unici
in grado di occuparsi della cosa pubblica senza dover rendere conto delle loro
azioni e decisioni. La partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica è invece
a nostro parere l’unica garanzia che si stia attuando un percorso democratico e
che l’interesse dei cittadini sia prevalente su ogni altro.
Cari
amici,
vi vorrei confessare, innanzi tutto, che tre
volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo
in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel
passare da questo all’argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire
“falso”, di inzuccherare con un preambolo patetico una pillola propagandistica.
E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma
di un esame che vorrei fare con voi.
Invece
dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a
vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per
riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti.
Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che con me conveniste
quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al
fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti
alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano.
Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi
stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete, perché rifare noi
stesi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di
questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla
famiglia ed al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e
soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di
“quiete”, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo
bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni
manifestazione politica. E’ il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato
di un’opera di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per
vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi.
Fondamentale quello della “sporcizia” della politica che mi sembra sia stato
inspirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro
di “specialisti”.
Duro lavoro, che ha le sua esigenze: e
queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a
quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria
e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività
politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete,
questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica –
se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri
– ci siamo scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come
mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso
processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di
qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol
dire a se stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni
diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? che cosa abbiamo
creduto? creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati
strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questo ci ha depredato, buttato in
un’avventura senza fine; e questo è il lato più “roseo” io credo. Il brutto è
che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione
morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi, la “cosa” pubblica è noi
stessi; ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e
vuota, come “patriottismo” o amore per
la madre che in lacrime e in catene ci chiama, visioni barocche, anche se
lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma
non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni
retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra
famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura, è
sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro
paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe
successo questo? L’egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una
doccia fredda, vero?
Sempre, tutte le pillole ci sono state
propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica. Facciamoci
forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento
ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato.
E’ meglio metterlo alla luce del solo,
confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno
prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che
facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso,
condannabile, maledetto, proprio quando è cieco; inintelligente. Soprattutto
quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della “cosa
pubblica”, insomma, finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo
curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e
importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di
tutti gli altri. Se non ci appassioniamo a questo, se noi non lo trattiamo a
fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci
attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche
bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi e ad esprimere
desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati,
di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più
voluto sapere!
Ricordate, siete uomini, avete il dovere, se
il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri
interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato
che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi:
quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere: che nostra
sarà la responsabilità, se andremo incontro a un pericolo negativo? Bisognerà
fare molto. Provate a chiedervi un giorno, quale stato,per l’idea che avete voi
stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi
obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della
costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure
aspettate una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E
se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per
esempio, sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e
genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad
un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete
convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure
a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore.
Questo è il primo dovere per noi tutti. Ma è bene prepararsi a risolvere quei
problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi e il ripetersi di
tutto quanto si è abbattuto su noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa,
lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.
Giacomo Ulivi, nato a
Baccanelli San Pancrazio il 29 ottobre del 1925, dal febbraio 1944 è incaricato
dei collegamenti fra il C.L.N. di Parma e il C.L.N. di Carrara nonché con
ufficiali inglesi e collabora all’avvio e all’organizzazione di renitenti alla
leva sull’Appennino tosco-emiliano. Per due volte viene catturato e per due
volte riesce a fuggire finché, catturato una terza volta, il 30 ottobre 1944,
viene dapprima amnistiato e poi fucilato per rappresaglia il mattino del 10
novembre 1944 sulla Piazza Grande di Modena. Questa lettera è stata scritta
agli amici tra il secondo e l’ultimo arresto. E’ pubblicata nel volume “Lettere
dei condannati a morte della Resistenza Italiana”, Torino 1963, pp 368/371
Che Ulivi fosse uomo di cultura (era allievo di Attilio Bertolucci)lo si capisce dal suo
RispondiEliminaargomentare.Quanto fosse lungimirante ed imbevuto di spirito civico e partecipativo
lo si vede in ogni frase.Stupisce come la indipendenza di giudizio ed il conseguente senso di libertà abbia potuto conservarsi in un giovane interamente vissuto durante un regime.
Sicuramente un esempio che lo rende sempre attuale.