Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare
Direzione
Generale per la crescita sostenibile e la qualità dello sviluppo
Via
Cristoforo Colombo 44 - 00147 Roma
Osservazioni
al progetto: Sostituzione dell’unità a carbone esistente con una
nuova unità a gas per la Centrale Termoelettrica “Eugenio Montale”
della Spezia
Premessa
L’Accordo
di Parigi, gli obiettivi di decarbonizzazione, l'urgenza della crisi
climatica ma anche l’emergenza sanitaria richiedono, da parte di
tutti gli Stati del Mondo, Italia compresa, un cambio
di rotta forte e innovativo
che deve vedere il settore energetico protagonista di un cambio
radicale non solo nel modo di produrre energia elettrica
e termica, che entro il 2040 dovrà escludere l’uso delle fonti
fossili, ma anche nel modo di approvvigionamento, di distribuzione,
di consumo attraverso un modello distribuito da fonti rinnovabili in
cui i consumatori (cittadini, amministrazioni e imprese) diventano
produttori e autoconsumatori e in cui gli elettrodomestici non
saranno solo più punti di consumo, ma anche fonti di accumulo. Così
come la mobilità, che dovrà essere ripensata ed adeguata alle
necessità della transizione energetica e alla decarbonizzazione.
In
questo nuovo scenario, determinante per la salvaguardia delle
comunità cittadine, dei centri urbani, dei territori agricoli e di
pregio e dello stesso tessuto produttivo, sarà non solo la posizione
che ogni Paese avrà rispetto all’urgenza di affrontare e
combattere i cambiamenti climatici, ma anche quali strade si vorranno
percorrere. Certo è, che questo cambiamento richiede investimenti
importanti
non solo in termini di infrastrutture e impianti, ma anche e
soprattutto in termini di
reti, di accumuli, di mezzi di trasporto collettivo, di veicoli ed
utenze smart e di tutta l’economia nazionale.
Per
fare questo è urgente e necessario affrontare le “regole del
gioco” della nostra economia, nate ai tempi di Adam Smith
(1723–1790, padre fondatore dell'economia politica) e cresciute
nell’era dell’abbondanza di energia fossile. Per questo tagliate
su misura e strumentali per questo tipo di modello di sviluppo.
Per
consentire la transizione verso le rinnovabili occorre intervenire
prima di tutto sulle regole, in modo da eliminare le barriere
burocratiche che impediscono lo sviluppo delle tecnologie
sostenibili, e di rendere economicamente conveniente la loro
applicazione.
A
seguito dei negoziati a Bruxelles sull’aumento degli obiettivi di
riduzione delle emissioni di CO2, e stimolato dalla necessità di
presentare un PNIEC (Piano Integrato Energia e Clima) coerente
rispetto agli obiettivi già assunti dal nostro Paese, anche in
Italia il dibattito è aperto. Un dibattito, però, che piuttosto che
mirare alla decarbonizzazione attraverso lo sviluppo delle fonti
rinnovabili, paradossalmente, continua a focalizzare l’attenzione
sul metano e sul suo presunto ruolo quale fonte di transizione e di
aiuto al raggiungimento dell’obiettivo.
Il
primo passo per il raggiungimento, nel nostro Paese, degli impegni
internazionali è senz’altro la chiusura
entro il 2025 delle centrali a carbone,
per una capacità di oltre 7.900 MW. Un tema che sta generando a
livello nazionale, così come a livello locale, un dibattito acceso
sul futuro delle comunità locali che vivono intorno a queste
centrali. Da una parte i territori esprimono giustamente
l’aspirazione legittima
di vedere realizzata una riconversione nel rispetto della piena
sostenibilità ambientale (che escluderebbe ogni impianto a fonte
fossile) e la necessità di salvaguardare l’economia locale e i
livelli di occupazione attuale. Dall’altra si pone la giusta
necessità di mantenere in sicurezza la rete e in generale il
servizio di alimentazione elettrica dell’economia del paese.
Infatti,
per rispondere a quest’ultima esigenza, il Ministero dello Sviluppo
Economico italiano pone la necessità di costruire non solo tra i 3 e
4.000 MW di nuove centrali elettriche a gas (dipende da quale
documento si tiene in considerazione tra PNIEC e proposte Terna
discusse nei tavoli di lavoro del Ministero), ma anche diversi
investimenti pubblici in infrastrutture del gas, in modo da aumentare
la capacità di approvvigionamenti a metano del nostro paese.
A
rafforzare tale convinzione e con la scusa di mantenere in sicurezza
la rete e i servizi elettrici, l’introduzione del “Capacity
Market” che, attraverso una remunerazione economica aggiuntiva,
mira ad agevolare e rendere più competitive sul mercato le centrali
programmabili (ovvero le centrali termoelettriche tradizionali a gas
metano). A tale sistema che, in linea di principio, potrebbe essere
aperto sia a impianti da fonti fossili che da rinnovabili (in forma
aggregata), possono invece accedere solo gli impianti inquinanti,
esistenti o di nuova costruzione, per i quali per i prossimi 15 anni
sono previste risorse per 1-1,4 miliardi di euro l’anno, pagati in
bolletta dai consumatori. Un costo che potrebbe essere ridotto se
associato invece alle sole centrali esistenti utilizzate per
eventuali momenti di picco.
Di
fronte a tale strategia governativa la prima domanda da porsi è se
il gas metano possa davvero aiutare il nostro Paese a raggiungere gli
obiettivi di decarbonzzazione. Come
noto, la molecola del metano ha
un “effetto serra” maggiore della CO2,
ma grazie a una emivita di 10 anni non ha destato fino ad oggi grosse
preoccupazioni. Ma dopo dieci anni metà del metano si trasforma in
vapore d'acqua e in CO2.
A parità di apporto energetico, il metano è responsabile di minori
emissioni CO2
rispetto al petrolio (25% in meno) e ancor meno del carbone (quasi la
metà), ma questo non vuol dire non essere climalterante.
E
visto il tema dell’urgenza e dell’emergenza climatica, questa
appare da sola già una motivazione sufficiente a ritenere che il
metano non sia una risorsa energetica che fa bene al clima, e quindi
assolutamente non idonea a traghettare il nostro Paese al 2040, come
invece prevede il PNIEC.
La
seconda domanda da porsi riguarda invece in modo specifico il nostro
sistema energetico: alla luce degli obiettivi di crescita
dell’impiego delle fonti rinnovabili, e della conseguente riduzione
della domanda per il gas metano, che senso
ha investire denaro pubblico per aumentare le capacità di
approvvigionamento di un gas fossile nel nostro Paese?
Non solo, ma vista l’attuale
sovracapacità delle centrali a metano esistenti in Italia, quali
vantaggi porterebbe al nostro Paese continuare ad investire in nuove
centrali a metano, visto il sottoutilizzo di quelle esistenti?
Siamo
proprio sicuri che, per compensare la chiusura delle centrali a
carbone, l’unica strada percorribile sia quella delle delle nuove
centrali a metano?
Alla luce della crescente elettrificazione dell’economia (vedi
quanto accade in tema di mobilità elettrica e di riscaldamento
grazie alle pompe di calore), non sarebbe invece più logico puntare
a sviluppare in tempo utile la rete e le infrastrutture elettriche? E
proprio per meglio accogliere in rete le fonti rinnovabili, non
sarebbe più lungimirante puntare sullo sviluppo della capacità di
accumulo nel nostro Paese, valorizzando anche i pompaggi
idroelettrici che, grazie alla lungimiranza dei nostri nonni e
bisnonni, già esistono in gran numero e sono operativi e
sottoutilizzati nel nostro Paese?
Quello
che appare chiaro dai numeri pubblicati anche da Terna e Snam è che
l’Italia non
deve commettere l’errore di sostituire i 7.900 MW a carbone con
nuovi impianti a gas.
Le nuove centrali elettriche a metano costruite negli ultimi due
decenni hanno prodotto una situazione di sovrabbondanza: oggi,
infatti, il parco di generazione esistente ammonta a 115.000 MW di
potenza installata, quasi il doppio rispetto alla domanda
massima sulla rete (58.219 MW nel luglio 2019, fonte Terna).
E basterebbe un'analisi delle ore
medie annue di esercizio delle centrali a gas esistenti, 3.261, a
dimostrare che un leggero aumento delle ore di lavoro, portandole a
4.000 ore medie l’anno, sarebbero sufficienti a soddisfare il
fabbisogno energetico italiano, spingendo in contemporanea e in modo
decisivo sulle rinnovabili, l’efficienza e gli accumuli per
superare questa fase di transizione senza dover investire in nuove
centrali.
Sebbene
dal punto di vista climatico non si tratti di un scenario
auspicabile, in quanto richiederebbe in sé un aumento dei consumi di
metano, dal punto di vista delle risorse economiche metterebbe
certamente il nostro Paese nelle condizioni di avere maggiori risorse
(comprese quelle del Capacity Market) da investire da subito in un
sistema più sostenibile, sviluppando benefici climatici, economici e
in termini di nuovi posti di lavoro.
Ma
per raggiungere tali obiettivi il nostro Paese deve,
fin da subito, iniziare ad investire in modo massiccio sulle fonti
rinnovabili, a partire da solare ed eolico, di cui il nostro Paese ha
grandi potenziali, con numeri di installazioni ben più alti di
quelli fino ad oggi trattati anche nei cosiddetti anni d’oro (2009
- 2011). Infatti sebbene nel 2019 le fonti rinnovabili
abbiano
continuato
a crescere, questo è avvenuto, come negli anni precedenti, con ritmi
del tutto inadeguati rispetto a quanto l’Italia potrebbe e dovrebbe
fare per rispettare gli impegni nella lotta ai cambiamenti climatici.
Il rallentamento delle installazioni in questi anni è stato
rilevante in particolare per il fotovoltaico con 1,4 GW installati
negli ultimi tre anni a fronte dei 14 GW installati nel triennio
2011-2013, mentre l’eolico passa, rispetto agli anni 2011-2012, da
una media di 1.000 MW/anno di nuovi impianti a 449 MW/anno.
Non
solo, ma a confermare che in Italia non vi sia alcun bisogno di nuove
infrastrutture basta guardare l’andamento dei consumi di gas metano
che,
come dimostrano i Bilanci energetici nazionali,
mettono in evidenza come la produzione termoelettrica annuale da
metano
abbia
raggiunto
il suo massimo storico nel 2007 (anno pre crisi) con un consumo di 34
miliardi di mc. Le previsioni del PNIEC, considerando la chiusura di
tutte le centrali a carbone nel 2025, confermano un consumo di gas
metano di 37.709 ktep (43,5 miliardi di smc) al 2040, pari al 30% del
consumo interno lordo, affidando
a questa fonte inquinate un ruolo ancora determinante nel sistema
energetico nazionale.
Eppure dando uno sguardo ai consumi del gas metano, dati dalla stessa
Snam, è facile osservare come questi siano in diminuzione e secondo
le previsioni non raggiungano i 30 miliardi di mc nel 2025 e i 26 mld
mc nel 2030.
Numeri
che confermano come nel nostro Paese non sia assolutamente necessaria
la realizzazione di nuove infrastrutture.
Anche perché la maggior parte del gas sarebbe di importazione e
questo non andrebbe a garantire neanche il tema dell'indipendenza
energetica.
Documento
di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna
Non
solo, ma analizzando più da vicino il lavoro svolto da Snam non si
evince alcuna criticità
nella fornitura di gas naturale occasionale, ovvero nelle ore e
momenti di massima richiesta. Infatti come è possibile vedere dal
grafico, la punta massima di consumo si è registrata nel 2012 con
464 milioni di mc di gas consumato, e il settore che maggiormente
incide in tal senso è quello civile.
Da
allora l’Italia è stata caratterizzata da inverni più caldi e le
abitazioni stanno subendo un progressivo, seppur lento, miglioramento
grazie alle politica di efficientamento degli edifici e degli
impianti. Le stesse previsioni, sempre a cura Snam-Terna, non
lasciano prevedere aumenti, neppure nel peggiore degli scenari (BAU
2025 e 2040), compresi i momenti di picco, che ormai si sono spostati
dal periodo invernale - dove a causa del freddo generalmente si
registravano i momenti di maggior richiesta di gas - a quello estivo,
periodo in cui vi è una maggiore necessità di energia elettrica,
facilmente producibile con altre tecnologie.
DOMANDA
GIORNALIERA
DI GAS IN CONDIZIONI DI FREDDO ECCEZIONALE
Documento
di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna
Dal
punto di vista elettrico, infatti è giustificabile la previsione di
aumento dei consumi considerata dal PNIEC, considerando sia gli
spostamenti di richiesta energetici in base alla stagionalità, e
considerando l’elettrificazione dei settori mobilità e
riscaldamento. Incremento
che però nel Piano Integrato Energia e Clima appare modesto,
passando da 60,5 GW registrato nel 2015 ai 61,9 GW. Un valore che può
essere facilmente coperto attraverso le fonti rinnovabili, con
particolare riferimento al solare fotovoltaico
e
eolico,
connesse a sistemi di accumulo che insieme all’idroelettrico e ai
pompaggi può svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione di
potenza alla rete,
previsti dallo stesso PNIEC, in un sistema decentrato.
In prospettiva
anche
da condensatori o volani elettromeccanici. Infatti il PNIEC prevede
di incrementare da 7 a 12 di GW idroelettrici per pompaggi e di
disporre di 6 GW nuovi di stoccaggio elettrochimico.
DOMANDA
ELETTRICA D
AL
2000
Documento
di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna
VALORI
DELLA PUNTA DI CARICO ELETTRICO - SCENARI
Documento
di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna
In
questo scenario, è del tutto evidente che la previsione di nuovi 3 o
4 GW di centrali a gas appare del tutto immotivata, se
non per assecondare le utility delle fossili e del grande
termoelettrico che punta ancora a controllare il mercato
dell'energia.
Scenari
mondiali
Gli
obiettivi che sono alla base del progetto in esame sono
sostanzialmente:
a)
l’inserimento nel contesto nazionale ed europeo di riduzione delle
fonti maggiormente inquinanti e nell’ottica di una complessiva
decarbonizzazione;
b)
la salvaguardia della stabilità e dell’affidabilità della rete
elettrica in relazione alla crescente produzione da fonti
rinnovabili.
Il
progetto in esame non darà alcun apporto a tali obiettivi, ed anzi
contribuirà ad allontanarli ulteriormente, come si mostrerà nel
seguito del presente documento.
Sono
disponibili da tempo numerosi altri studi e ricerche che ipotizzano
scenari con il 100% di produzione rinnovabile. Consideriamo quindi
acquisito e assodato nella presente relazione il dato per cui “non
sembrano ormai sussistere fondamentali limitazioni di tipo tecnico a
questo risultato1”
Mentre
in Italia la diffusione delle fonti rinnovabili registra in questi
anni preoccupanti battute di arresto a causa di inquietanti indirizzi
politici ancora intrisi di nostalgie per le fonti fossili, alcuni
stati come l’Austria, la Svezia, la Norvegia e la Svizzera superano
da decenni la quota rinnovabile del 50% nelle reti elettriche.
In
Italia il contributo delle FER (idroelettrica, fotovoltaica, eolica,
geotermica, bioenergie) nel 2018 si attesta sul 32% 2,
a fronte di una richiesta totale in rete di circa 321 TWh, mentre in
Germania la capacità “non programmabile” legata alle fonti
rinnovabili ha
raggiunto lo stesso ordine di grandezza della potenza media assorbita
dalla rete. In
tale Paese il prezzo dell’energia elettrica sul mercato
all’ingrosso talvolta è stato nullo o addirittura negativo,
segnalando la necessità di disconnettere una quota di impianti dalla
rete in alcune occasioni caratterizzate da alte produzioni
rinnovabili. Un altro dato significativo, che dovrebbe far riflettere
i decisori politici italiani, è che in tale Paese a differenza
dell’Italia si
svolgono approfonditi studi per migliorare la gestione della rete in
relazione ad un forte contributo da rinnovabili.
Anche
in Spagna l’evoluzione tecnologica su alcuni aspetti legati alla
diffusione delle FER è all’avanguardia. Questo Paese può disporre
di un parco da fonti rinnovabili con un contributo alla produzione
elettrica che da anni è superiore al 50%; inoltre, mentre in Italia
il solare termodinamico è allo stadio poco più che sperimentale con
il progetto Archimede, quel Paese ha acquisito una notevole
esperienza in questo settore, di cui è il più significativo
produttore al mondo, ed è in grado di mantenere la produzione
nominale fino a 15 ore grazie ai sistemi di accumulo. In questo modo
le centrali possono funzionare anche nei periodi senza insolazione ed
hanno una programmabilità paragonabile a quelle tradizionali; per
queste innovazioni lo Stato remunera il produttore, mentre in Italia
si ricorre al “capacity market”, ennesimo aiuto di stato alle
fonti fossili.
La
Danimarca ha sempre storicamente fatto scuola nel settore eolico.
Mentre in Italia si finanziavano aziende assistite dallo Stato (es.
Fiat, Aeritalia) per produrre generatori di media taglia poco evoluti
e competitivi, destinati ad una veloce obsolescenza, in quel Paese si
sviluppava, tramite una proficua collaborazione tra pubblico e
privato, una forte esperienza nella produzione di generatori eolici
di media e grande taglia, che oggi vengono esportati e apprezzati per
la loro affidabilità in tutto il mondo. Mentre in Italia molti
operatori - comprese le maggiori aziende pubbliche - ancor oggi si
ostinano ad assegnare alle FER ruoli complementari e secondari
rispetto al parco termoelettrico, in Danimarca da tempo l’eolico è
la fonte attorno a cui ruota l’intero sistema elettrico, con
obiettivi di copertura dei propri consumi elettrici del 50% entro il
2020, mentre in
alcune situazioni particolari la produzione ha superato il consumo.
Per
tale obiettivo si è accettato un alto rapporto tra potenza degli
impianti FER (che tuttavia hanno un costo marginale di produzione
tendente allo zero) e potenza richiesta al consumo, e sono stati
sviluppati studi e investimenti per ottimizzare il dimensionamento
del parco eolico, quali l’interconnessione elettrica europea (in
modo da poter all’occorrenza esportare la produzione in eccesso),
l’elettrificazione dei trasporti, l’accumulo in sistemi di
teleriscaldamento.
1.
CARENZA DI INVESTIMENTI NELLE TECNOLOGIE DI ACCUMULO
Investendo
adeguatamente nelle nuove tecnologie, a partire da quelle di
accumulo, le centrali di produzione da fonti rinnovabili, sia in
piccola che in grande scala, sono in grado di fornire una produzione
programmabile di affidabilità pari o superiore a quella delle
centrali a gas. Ne è un esempio emblematico la crescente diffusione
dei sistemi di accumulo fotovoltaico in Italia. Pur in presenza di
una normativa confusa e procedure burocratiche farraginose, in Italia
nel 2018 si sono installati circa 10.000 sistemi di accumulo abbinati
a impianti fotovoltaici residenziali, per lo più con batterie al
litio 3,
con un incremento del 25% rispetto all’anno precedente. A fine
2019, risultavano installati circa 23.000 sistemi di accumulo, con
una potenza complessiva di circa 103 MW ed una capacità massima di
222 Mwh 4.
Con tali accumuli, l’utente è in grado di mantenersi
autosufficiente nella copertura dei fabbisogni fino al 70-80% ed
oltre, sgravando le reti di trasporto e contribuendo ad una minore
vulnerabilità del sistema elettrico. Mentre il mercato privato si
muove in linea con tendenze generali ormai univoche, gli investimenti
pubblici si limitano alle grande taglie con progetti innovativi ma
allo stadio sperimentale, come il progetto Terna “Storage Lab”.
Mentre
il sistema italiano investe ancora nelle centrali turbogas, mostrando
ritardi e retaggi nella diffusione di sistemi di accumulo, e solo le
Regioni Lombardia e Veneto hanno emanato bandi per l’incentivazione
di tali tecnologie in impianti domestici di piccola taglia, la
Spagna, che peraltro ha un piano per portare le rinnovabili al 74%
del mix elettrico al 2030 e che ha già varato programmi di
incentivazione nazionali dei sistemi di accumulo, ci dà una severa
lezione sui provvedimenti necessari per promuovere realmente
l’autoconsumo e l’indipendenza energetica. Con un organico
provvedimento legislativo iniziato nell’ottobre 2018 e ultimato con
un successivo decreto del Consiglio dei Ministri, questo Paese ha
attuato una profonda innovazione per favorire la generazione diffusa
mediante:
-
facilitazioni e semplificazioni
nella realizzazione impianti fotovoltaici di piccola e media taglia
destinati all’autoconsumo;
-
la possibilità di una gestione
condivisa
dell’impianto a livello di associazioni, imprese, intere comunità;
-
una valorizzazione
dei ruolo dei prosumer
(produttori-consumatori)
con la remunerazione dell’energia prodotta, non utilizzata e
immessa in rete, con una compensazione tariffaria che può arrivare
al 100% del valore dell’energia consumata nel mese;
-
sgravio di oneri di sistema
(che nella normativa italiana condizionano pesantemente i produttori
da rinnovabili e chiunque intenda aumentare risparmio e autoconsumo)
a favore dell’autoconsumo.
La
funzione di presunta “facile modulabilità” delle nuove centrali
a gas di cui al progetto in esame, rispetto alla presunta “non
programmabilità” degli impianti a fonti rinnovabili, è anch’essa
da contestare. Le nuove tecnologie, ed in particolare quella
fotovoltaica ed eolica, hanno assimilato processi evoluti di
modulazione della potenza. I moderni inverter fotovoltaici hanno dei
sistemi di regolazione che consentono loro, senza organi in movimento
ma semplicemente grazie a loop di controllo elettronico, non solo di
rispettare i parametri di rete in tensione e frequenza e ricercare le
condizioni di funzionamento ottimali (MPPT, Maximum Power Point
Tracker), ma di partecipare alla stessa gestione della rete (servizi
di rete), regolando la potenza attiva e reattiva.
Simili
considerazioni si possono fare per la produzione eolica, che dispone
di sistemi di conversione evoluti come gli inverter a doppio stadio e
possono partecipare attivamente nel mantenere la stabilità della
rete.
Mentre
in Italia indugiamo sulle fonti fossili, in altri paesi si stanno
formando solidi comparti industriali nel settore storage. Il
Bloomberg New Energy Finance (BNEF) nel suo Energy Storage Outlook
2019 sostiene che il costo per kWh delle batterie si dimezzerà
ancora da oggi al 2030, dopo una riduzione dell’85% dal 2010 al
2018. Lo stesso Istituto stima ben 1.000 GW/2.850 GWh in tutto il
mondo al 2040 di storage stazionario per la rete elettrica 5,
con una crescita di 122 volte rispetto alla fine del 2018 e con
investimenti connessi che molti esperti stimano in 660 miliardi di
dollari.
Negli
USA si moltiplicano gli esempi di aziende che preferiscono investire
su grandi installazioni di storage o su impianti ibridi
eolico/fotovoltaico/accumulo per coprire i picchi di domanda e
bilanciare domanda e offerta, anziché costruire nuove centrali
“peaker” alimentate a gas naturale. Sorgerà in Oklahoma un
impianto ibrido eolico+fotovoltaico+batterie di NextEra Energy
Resources da 700 MW, in accordo con un distributore locale di
energia. Stessa tendenza in California e Oregone, dove si sta
puntando su grandi impianti fotovoltaici o ibridi con batterie
integrate, prevedendo idonei incentivi fiscali.
2.
INCREMENTO STORICO DELLA POTENZA RINNOVABILE E INSTABILITA’ DELLA
RETE
Un
altro aspetto significativo del nostro sistema elettrico è la sua
“naturale” evoluzione verso un maggior protagonismo delle FER,
senza
che questo abbia comportato significativi problemi di stabilità
della rete.
Confrontando
pochi semplici dati 6
si possono ricavare interessanti conclusioni sull’impatto delle
fonti rinnovabili sul sistema elettrico.
Nel
2005 la copertura della domanda totale di energia elettrica, pari
290,6 TWh, era affidata per il 16% alle fonti rinnovabili, in
prevalenza all’energia idroelettrica (12,2%).
Nel
2018, a fronte di una domanda di 303 TWh, il contributo delle
rinnovabili è balzato al 33,5%, pari a circa 55 Twh aggiuntivi, di
cui il 16,1% da fotovoltaico, eolico e geotermico. Ciò, si noti
bene, senza una particolare predisposizione del sistema elettrico a
ricevere tale produzione, impensabile fino a pochi anni prima. Anzi,
l’impreparazione del sistema – o se si preferisce la storica
mancanza di programmazione nell’evoluzione della rete rimasta
sostanzialmente rigida e centralizzata - ha perfino portato a negare
l’immissione in rete di una quota della produzione pulita, come
quella di parchi eolici nel sub-appennino Dauno7.
Gli
ultimi dati disponibili sono ancora più significativi.
Nel
2019 le rinnovabili hanno coperto il 35,9% (35,5% scorporando i dati
di pompaggio dall’idroelettrico) della domanda elettrica nazionale,
con una produzione complessiva di 114,6 Twh (il massimo storico), a
fronte di una domanda di 316,6 kWh. In questo anno l’eolico ha
soddisfatto il 6,3% della domanda elettrica italiana, mentre il
fotovoltaico copre il 7,6%, arrivando insieme al livello più alto di
sempre.
In
ogni caso, l’immissione nel sistema elettrico di una percentuale
così significativa di produzioni rinnovabili non ha determinato i
problemi che studi superficiali e/o tendenziosi prevedevano.
In
merito riportiamo un esempio emblematico. Nel 2013 una Deliberazione
dell’Autorità per l’Energia (AEEG n. 243/2013) impose a tutti i
titolari di impianti di impianti fotovoltaici di potenza superiore a
6 kW di adeguare con determinate tempistiche le protezioni di
interfaccia con la rete elettrica in media e bassa tensione, in modo
da poter restare connessi per oscillazioni della frequenza nel campo
49-51 Hz (valore nominale 50 Hz). La disposizione creò notevoli
incertezze e disagi a tutti gli operatori e produttori del settore,
costretti a oneri aggiuntivi di gestione dell’impianto, sotto
minaccia di sospensione e/o cancellazione degli incentivi percepiti.
La disposizione sarebbe derivata da non ben definiti studi da parte
CEI e Terna per cui l’aumento di connessioni di impianti FER
avrebbe potuto determinare instabilità sulle reti. La
previsione si rivelò poi del tutto sbagliata,
e la frequenza non si è mai distaccata per più di qualche punto
percentuale di Hz, o al massimo di un decimo di Hz in situazioni
critiche, dal valore nominale. Per cui il provvedimento appare oggi,
più che derivante da reali necessità, teso a scaricare sui
produttori le incertezze e le incapacità di programmazione di una
rete mal gestita.
D’altronde
già nel 2013, tra le 14 e le 15 del 16 giugno, per la prima volta
nella storia energetica italiana, il prezzo di acquisto dell’energia
elettrica (PUN, Prezzo Unico Nazionale) è
sceso a zero su tutto il territorio nazionale,
in quanto in quelle ore fotovoltaico,
eolico e idroelettrico hanno coperto al 100% la richiesta di
elettricità,
pari a 31.199 MW (ore 14) e 30.565 MW (ore 15) 8,
peraltro senza significativi fenomeni di instabilità delle reti. Un
altro esempio emblematico mostra al contrario la vulnerabilità di
sistemi elettrici basati sulle fonti fossili e sull’attuale modello
perseguito da Terna e dai principali operatori del mercato elettrico.
Alle
3,27 di domenica 28 settembre 2003, a causa di un albero caduto su
una linea elettrica che collega l’Italia con la Svizzera, per un
effetto domino dovuto alla eccessiva rigidità della rete, l’intera
Italia rimase senza energia elettrica, ad eccezione di Capri e della
Sardegna, dotate di reti autonome. La corrente ritornò alle 9 al
nord, alle 16,30 al centro e alle 19 al sud, mentre in Sicilia si
aspettò fino alle 22.
L’episodio
mostra tutti i limiti di un sistema rigido e accentrato come quello
attuale, in cui si inserisce a pieno titolo il progetto in esame, e
le direzioni verso cui sarebbe invece opportuno investire (e non con
fuorvianti e pasticciati “piani anti-blackout): decentramento della
produzione verso la generazione diffusa, programmazione di bacino
senza costose e vulnerabili infrastrutture di trasporto, conversione
degli impianti alle fonti rinnovabili, intrinsecamente più
affidabili (si pensi agli impianti fotovoltaici, sostanzialmente
privi di organi in movimento) ed esenti da limitazioni dovuti al
reperimento dell’energia primaria.
3.
ESTEMPORANEITA’ E CONTRADDIZIONI NELLO SVILUPPO DI NUOVE CENTRALI
TURBOGAS
Un
ulteriore argomento, che mostra la carenza di strategie a lungo
termine, la contraddittorietà delle tendenze in corso e la
persistenza di nostalgie legate alla fonti fossili, si ricava da una
semplice analisi storica dei provvedimenti Enel nei riguardi delle
centrali termoelettriche a gas.
In
un’audizione alla Commissione Industria del Senato della Repubblica
del 15.10.2014, l’amministratore Enel Francesco Starace annunciava
la dismissione o la riconversione alle fonti rinnovabili di centrali
termoelettriche per 11 GW, nonché progetti interessanti per far
entrare le fonti pulite nel mercato del dispacciamento 9.
Con il programma Futur-e Enel specifica meglio le centrali in
dismissione, tra cui Bari (a olio gas, 203 MW), Rossano (a olio-gas,
1738 MW, ripotenziata con 4 gruppi turbogas da 115 MW cad. ),
Campomarino (turbogas, 88 MW), Giugliano (turbogas, 352 MW), Termini
Imerese (ciclo combinato e ciclo semplice, 1340 MW).
Non
si vedono motivi validi per cui Enel dismetta impianti a gas da un
lato per costruire nuovi impianti dall’altro; né per cui non si
possa prevedere una riqualificazione di impianti a gas esistenti
piuttosto che realizzare nuove costruzioni; né per quale motivo si
continui ad aumentare la potenza del parco di generazione pugliese,
già sovradimensionato e destinato ad esportare gran parte della
produzione, rinunciando ad altri siti esistenti più baricentrici e
con minori esuberi di produzione.
4.
DIFFORMITA’
DAL REGOLAMENTO UE 2018/1999 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO
E DALLE DIRETTIVE COMUNITARIE IN TEMA DI LOTTA AI CAMBIAMENTI
CLIMATICI
Diversi
studi hanno fortemente ridimensionato, fino ad annullarle, le
previsioni dei benefici indotti alle emissioni climalteranti dalla
sostituzione di carbone con gas naturale nelle centrali elettriche.
Un
recente studio americano dei ricercatori del NOAA (National Oceanic
and Atmosferic Administration, Dipartimento di commercio degli Stati
Uniti) di Boulder (Colorado)10,
basato su centinaia di rilevazioni delle filiere produttive di
petrolio e gas negli anni 2012-2016, in nove aree che rappresentano
il 30% circa della produzione di gas naturale negli USA, è
considerato la stima più completa finora realizzata sugli impatti
climatici dell’industria fossile. Lo studio stima che le emissioni
di gas siano del 60% circa superiori alle stime dell’inventario
dell’Agenzia per la protezione ambientale (EPA). Tale differenza è
dovuta sostanzialmente al fatto che negli inventari tradizionali non
si rilevano correttamente le emissioni rilasciate in condizioni
operative “anormali”, come emissioni da sfiati di serbatoi e
valvole, perdite nello stoccaggio, manipolazione e distribuzione del
gas. I nuovi studi si basano non solo su rilevazioni nei singoli
pozzi di estrazione, ma anche su calcoli “top down” come rilievi
aerei delle regioni produttrici. Le perdite ammonterebbero al
2,3-2,7% della produzione di gas. Ciò
determina - conclude lo Studio - un impatto sul clima in un orizzonte
temporale di 20 anni equivalente alle emissioni di CO2 di tutte le
centrali elettriche a carbone operanti negli USA nel 2015;
in altre parole, le
emissioni di metano in tale periodo avrebbero azzerato i benefici sul
clima apportati dalla conversione a metano degli impianti a carbone
nello stesso periodo. Una
conclusione dirompente, che impone una revisione delle attuali
politiche di “decarbonizzazione” in corso, compresa quella
perseguita in Italia. Se le conclusioni dello studio si potessere
estendere al nostro Paese, almeno come ordini di grandezza – il che
appare del tutto verosimile – occorrerebbe rivedere sostanzialmente
il contributo del gas naturale nella emissione di CO2
in impianti di combustione. Se è vero che al gas naturale può
essere assegnato un fattore di conversione in gas serra pari a 56
gCO2/MJ,
a fronte dei 95 gCO2/MJ
del carbone, occorre però considerare che tale fattore va sommato
agli effetti dovuti alle emissioni dirette e fughe di gas da pozzi,
condotte e installazioni estrattive, annullando praticamente – come
sostiene il prestigioso studio americano citato – gli effetti
positivi della sostituzione del carbone con il metano negli impianti
di combustioni.
Steven
Hamburg, capo scienziato di Environmental Defense Fund (EDF), che ha
svolto lavori approfonditi sui cambiamenti climatici e sulle
emissioni di metano nella catena di approvvigionamento del gas
naturale, con relativi impatti sull’ambiente e sulla salute umana,
con oltre 100 articoli scientifici sul tema, ha affermato, alla luce
di queste nuove stime, che per il gas naturale “l’impatto
totale del gas serra è peggiore della combustione a carbone”
11
.
Vincenzo
Balzani, accademico dei Lincei, docente emerito di Chimica
all’Università di Bologna, lauree honoris causa presso le
Università di Friburgo (CH) e Shanghai (Cina), autore di diverse
pubblicazioni scientifiche, afferma in un documento 12:
“E’
vero che a parità di energia prodotta la quantità di CO2 generata
dal gas naturale è inferiore di almeno il 20% di quella generata
quando si usano derivati del petrolio, ma è anche vero che il metano
è un gas serra 72 volte più potente di CO2, quando l’effetto è
misurato su 20 anni, e 25 volte più potente quando misurato su 100
anni. Poiché nella filiera lunga del metano si stima ci siano
perdite di almeno il 3% rispetto alla quantità di gas usato, è
chiaro che passando al metano non si combatte affatto il cambiamento
climatico”.
13
In
relazione alla crescente penetrazione delle fonti rinnovabili nel
sistema elettrico, è agevole dimostrare che questo modello
innovativo lascia uno spazio ristretto – ed a breve termine –
alle fonti fossili.
Il
Prof. Mark Z. Jacobson, docente di ingegneria civile e ambientale
all’Università di Stanford, insieme a colleghi di altri atenei, ha
svolto una ricerca per garantire energia rinnovabile sicura ad almeno
139 nazioni, che ha portato alla pubblicazione dello studio
“Renewable
Energy”
14,
riportante diversi modelli che permetterebbero a 139 paesi di
raggiungere il 100% di alimentazione delle utenze da fonti
rinnovabili in tutti i settori entro il 2050, con un target
intermedio dell’80% entro il 2030. Il ricercatore sostiene che “in
base ai risultati raggiunti, posso dire con maggior sicurezza che non
c’è alcuna barriera economica o tecnica che impedisca il passaggio
del mondo intero all’utilizzo di energia rinnovabile per il 100%
della domanda, il tutto a un basso prezzo e con una rete elettrica
stabile. … Una soluzione di questo genere permetterebbe di
avvicinarsi molto all’eliminazione del problema del riscaldamento
globale e di impedire i 4-7 milioni di decessi causati ogni anno
dall’inquinamento atmosferico, al contempo si riuscirebbe però a
garantire a tutti la sicurezza energetica”.
I
risultati dello studio hanno dimostrato che:
- vi sono molte possibilità di ottenere stabilità nella rete elettrica utilizzando al 100% energie rinnovabili;
- il costo per unità di energia prodotta, inclusi i costi indotti (salute, cambiamento climatico ecc.) sono circa un quarto di quelli che si affronterebbero se si continuasse ad utilizzare energia da fonti non rinnovabili;
- diminuirebbero i costi pagati dai consumatori, in quanto si dimezzerebbero i costi di produzione rispetto a quelli legati ai combustibili fossili (trivellazioni, lavorazione, raffinamento e trasporto).
Mark
Delucchi, coautore dello studio “Renewable
Energy”
prima citato e ricercatore dell’Università di Berkeley in
California, afferma che “il
nostro lavoro dimostra che questo risultato può essere raggiunto in
quasi tutte le nazioni del mondo con le tecnologie già esistenti.”
In
sintonia con questi ed altri studi, si succedono gli appelli per una
rapida eliminazione dei combustibili fossili.
Tra
gli altri il prof. Anthony Ingraffea, docente presso la Cornell
University, membro del Consiglio di amministrazione di EarthWorks 15,
che ha svolto lunghe e qualificate attività di ricerca per
l’industria petrolifera e del gas dal 1984 al 2001, si è espresso
sulla necessità di favorire una solida ricerca scientifica
indipendente su tali impatti ed ha dichiarato recentemente che “per
evitare catastrofici cambiamenti climatici, dobbiamo abbandonare
immediatamente tutti i combustibili fossili a favore della
conservazione e delle energie rinnovabili”.
I
danni che progetti come quello in esame possono determinare a causa
dei cambiamenti climatici sono contenuti in qualificati studi
previsionali, e sono ormai riscontrabili in tutto il mondo. Gli
stessi ricercatori del NOAA, insieme a colleghi dell’Università
del Wisconsin di Madison, hanno preso in esame 40 anni di dati
satellitari 16,
concludendo che, a causa dell’aumento di temperatura superficiale
dei mari, uragani, tifoni e cicloni in tutto il mondo stanno
diventando sempre più potenti e mortali, con tempeste che riescono
più facilmente a raggiungere la categoria 3 con venti superiori a
160 Km/h.
In
questo contesto, insistere nella diffusione delle fonti fossili –
quando sussistono valide alternative con fonti pulite – più che
una scelta energetica sbagliata ed in controtendenza con gli scenari
energetici mondiali, appare come un grave atto di irresponsabilità e
di disprezzo per l’intera umanità.
L’osservatorio
atmosferico di NOAA 17a
Mauna ha registrato il 1° gennaio 2019 la quarta crescita annuale
più alta nella concentrazione di CO2
in 60 anni di tenuta dei registri (diagramma seguente), arrivando a
410 ppm.
Ciò
significa che, invece di diminuire, le emissioni stanno aumentando
(grafico seguente)18,
e che dovremmo da subito tagliare le emissioni di gas serra a livello
mondiale di oltre un miliardo di tonnellate di CO2
all’anno, mentre abbiamo bisogno di un grande balzo delle fonti
rinnovabili, che dovrebbero coprire tra il 70% e l’85% della
domanda mondiale di elettricità entro il 2050.
In
questo quadro allarmante, il metano ha un duplice effetto negativo
sui cambiamenti climatici. Da un lato, le immissioni dirette in
atmosfera di questo gas, che ha un effetto serra molte decine di
volte superiore alla CO2,
a seguito dell’estrazione e della manipolazione del gas. I dati
rilevati nella produzione nazionale di gas serra, come appresso
riportato, confermano queste conclusioni. A prescindere dal tipo di
calcolo degli effetti del metano e della sua combustione sulle
emissioni di gas serra, resta il fatto inoppugnabile, come si
argomenterà appresso, che la politica di sostituzione del carbone
con gas nelle centrali termoelettriche nazionali sta contribuendo ad
un aumento, invece che una diminuzione, delle emissioni di CO2,
in palese violazione delle direttive comunitarie.
Il
Parlamento europeo ed il Consiglio dell’Unione Europea hanno
individuato come obiettivo fondamentale dell’Unione (vedasi
Regolamento UE 2018/1999) quello di “preservare,
proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente e di promuovere
l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, in
particolare promuovendo l’efficienza energetica e i risparmi
energetici e sviluppando nuove forme di energia rinnovabile.”
Nelle conclusioni del 23 e 24 ottobre 2014 il Consiglio Europeo ha
approvato un quadro dell’UE al 2030 delle politiche per l’energia
ed il clima, basato su 4 obiettivi, tra cui la riduzione di almeno
il 40% delle emissioni di gas a effetto serra nel sistema economico
rispetto ai livelli del 1990,
oltre a un contributo delle fonti rinnovabili al 32%; tale obiettivo
è stato formalmente approvato dal Consiglio del 6.03.2015, quale
contributo UE all’accordo di Parigi del 2015, nell’ambito della
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ed
è entrato in vigore il 4.11.2016;
L’accordo
di Parigi ha reso più ambiziosi gli obiettivi relativi ai
cambiamenti climatici, onde mantenere l’aumento della temperatura
mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e
limitare tale aumento a 1,5°C. In tale quadro assume rilevanza
fondamentale limitare le emissioni di gas a effetto serra, tra cui la
CO2,
con uno scenario che prevede l’azzeramento delle emissioni nette
dei gas ad effetto serra entro il 2050. La Direttiva prevede quindi
che “l’Unione
e gli Stati membri dovrebbero pertanto collaborare con i loro partner
internazionali al fine di garantire che tutte le parti dell’accordo
di Parigi mantengano un livello elevato di ambizione rispetto agli
obiettivi a lungo termine stabiliti.” I
piani nazionali integrati per l’energia ed il clima (di cui si
tratterà in apposito paragrafo) dovrebbero quindi convergere in tale
direzione.
Nell’Allegato
V, parte 2, del Regolamento in esame, sono citati i “gas
ad effetto serra da prendere in considerazione”
in tema di emissioni di gas a effetto serra. Al primo posto il
biossido di carbonio (CO2),
gas invece poco valutato nel contesto nel progetto in esame. Carenza
inaccettabile, che tra l’altro espone l’Italia, nel contesto di
una politica energetica ancora nostalgicamente rivolta alle fonti
fossili, ad una serie di possibili contestazioni in sede UE in
relazione agli obblighi relativi alla comunicazione di dati sulle
emissioni antropogeniche di gas a effetto serra (Allegato V del
Regolamento). In
particolare, ai sensi della citato Regolamento gli Stati membri sono
tenuti a seguire le linee guida IPCC 2006 per gli inventari
nazionali dei gas a effetto serra, facendo riferimento allo specifico
indicatore “Emissioni
specifiche di CO2
di centrali termoelettriche pubbliche”
(Parte 3).
Le
politiche energetiche messe in campo dall’Italia in tale quadro (il
progetto in esame ne è un esempio emblematico), al di là di
astratte enunciazioni di principio, appaiono insufficienti ai fini
del raggiungimento degli obiettivi, mentre non mancano le
contraddizioni.
InfluenceMap,
organizzazione no-profit con base a Londra, ha pubblicato
recentemente un rapporto su otto grandi associazioni industriali
europee, tra cui BusinessEurope, di cui fa parte Confindustria, (che
ha avuto uno dei punteggi peggiori in tema di lotta ai cambiamenti
climatici), rivelando
come la maggior parte delle lobby dal 2015 ad oggi ha continuato ad
opporsi agli obiettivi fissati in sede UE e negli accordi di Parigi
sul clima.
Il
Rapporto ISPRA 257/2017 “Fattori
di emissione atmosferica di CO2
e
altri gas a effetto serra nel settore elettrico”
(tabella seguente) mostra come il contributo del gas naturale alle
emissioni di CO2
nel settore termoelettrico in Italia (per la sola produzione di
energia elettrica) abbia superato dal 2015 quello dei combustibili
solidi, con 40,5 Mt CO2
(43,2%), superamento confermato nel 2016 con 41,5 Mt (43,2%), e che
complessivamente le emissioni nel settore siano aumentate negli
ultimi anni (90,1 Mt nel 2014, 93,6 Mt nel 2015, 96 Mt nel 2016), pur
in un contesto sostanzialmente stazionario dei consumi (301.880 Gwh
nel 2017, 295.508 GWh nel 2016, 297.179 GWh nel 2015, 291.083 GWh nel
2014) e della produzione elettrica (totale produzione lorda 2017
295.830 GWh, di cui 200.305 Gwh da produzione termoelettrica
tradizionale, e rispettivamente 289.768/199.429 GWh nel 2016,
282.994/192.053 GWh nel 2015, 279.828/176.171 GWh nel 2014). Un
aumento del 6,5% delle emissioni di CO2 nel biennio 2014-2016 nel
settore termoelettrico, a fronte di un incremento dei consumi nello
stesso periodo dell’1,5%, mostra, oltre alla inadeguata politica di
copertura dei fabbisogni, ancora schiacciata sulle fonti fossili
tradizionali e con efficienze limitate, anche una fallimentare
strategia di contrasto ai cambiamenti climatici ed all’effetto
serra: la sostituzione del carbone con il metano, insieme ad una
scriteriata programmazione di nuove produzioni fossili, porta
l’Italia ad aumentare le emissioni di CO2 nel comparto.
Rilevazioni
più recenti confermano sostanzialmente questa “dissociazione”
italiana tra obiettivi da raggiungere e risultati concreti. Nel 2018
le emissioni complessive di gas serra in Italia sono salite dello
0,2% rispetto al 2017, mentre le emissioni legate alla produzione di
energia mostrano una modesta contrazione del 2,1%, dovuta in gran
parte alla riduzione dei consumi. E’
evidente come la sostituzione del carbone con il gas non stia
portando ai risultati richiesti dai drammatici cambiamenti climatici.
I
risultati di tale politica sono evidenti anche nei dati più recenti.
Nel
2019 in Italia le emissioni di gas serra sono ridotte di un misero 1%
circa rispetto all’anno precedente, pur avendo cambiato
sostanzialmente il mix nelle centrali elettriche con un -30% di
carbone e +15% di gas. Lo stesso Enea attesta l’inadeguatezza di
questi risultati ed il fallimento di questa politica ambientale: “In
assenza di una crescita più sostenuta delle fonti rinnovabili e
dell’efficientamento energetico, ciò non basta a garantire il
raggiungimento degli obiettivi del Piano Nazionale Energia e Clima
(PNIEC) e la transizione verso un’economia low carbon 19”
Si
noti che parallelamente in Italia, a causa di questa dissennata
politica poco restia ad abbandonare con la dovuta determinazione le
fonti fossili, il contributo delle nuove fonti rinnovabili alla
domanda elettrica sta diminuendo (Fonte: Redazione QualEnergia,
1.02.20199).
.
Si
tenga presente che nel 2018, il contributo globale delle FER è
passato al 35,1% solo grazie al vigoroso incremento
dell’idroelettrico, passato da 2.282 del 2017 a 3.576 GWh del 2018,
mentre le variazioni di tutte le altre fonti pulite hanno avuto un
segno meno (Fonte: Terna).
L’Italia
quindi, pur di fronte a ambiziosi obiettivi di contrasto all’effetto
serra, che imporrebbero programmi coraggiosi e ambiziosi, sta
agendo di fatto contro le direttive europee,
incrementando le emissioni di CO2
nel settore termoelettrico e riducendo il contributo delle FER,
penalizzate fortemente con lucida determinazione dagli indirizzi
degli ultimi governi.
Per
effetto di queste politiche il contributo assoluto delle fonti
rinnovabili nel settore elettrico registra nel 2018 un valore assai
inferiore al 2014, a fronte di un aumento stazionario o in leggero
aumento del consumi elettrici 20
In
particolare il progetto in questione, proponendo un massiccio ricorso
al metano, pericoloso gas serra, ed in netta contrapposizione
strategica con la promozione delle fonti rinnovabili, pur in presenza
di scelte alternative più rispettose dell’ambiente nonché più
vantaggiose per il sistema economico e per la spesso citata a
sproposito “economia green”, a parità di soddisfacimento dei
consumi, come si vedrà appresso, si pone in un contesto di aperto
contrasto alle direttive europee, che indicano invece l’esigenza di
una transizione decisa e rapida alle fonti rinnovabili e l’abbandono
urgente delle fonti fossili, metano compreso, ed espongono l’Italia
a motivate contestazioni ufficiali per violazione degli indirizzi
comunitari.
5.
DIFFORMITA’ DAL PIANO NAZIONALE INTEGRATO ENERGIA E CLIMA (PNIEC)
Questo
importante documento di programmazione, strumento fondamentale
nell’attuazione delle politiche europee, “identifica
politiche e misure nazionali per ottemperare agli obiettivi
vincolanti europei al 2030 in tema di energia e clima nell’ambito
del “Quadro 2030 per le politiche dell’energia e del clima”.
Esso prevede al 2030 un contributo delle fonti rinnovabili del 30%
sui consumi finali lordi di energia, una riduzione dei consumi di 9
Mtep ed un taglio dei gas serra per i settori non ETS (sistema di
scambio delle quote di emissione) del 33% rispetto al 2005. Le nuove
norme in materia di Effort Sharing e di ETS adottate dalla UE nel
corso del 2018 (Regolamento 2018/842/UE e Direttiva 2018/410/UE)
pongono per l’Italia un obiettivo di riduzione delle emissioni
soggette al regolamento Effort Sharing del 33% rispetto ai livelli
del 2005, mentre rimane l’obiettivo di tutti i settori soggetti,
comprese le industrie energetiche, di
riduzione delle emissioni del 43%.
In
questa prospettiva il Piano prevede:
- ulteriori 30 GW di fotovoltaico rispetto ai 20 GW già in esercizio, con “impianti che utilizzano prioritariamente coperture dei fabbricati e aree a terra compromesse, in linea con gli obiettivi di riduzione del consumo di suolo”;
- un “importante sviluppo di sistemi di accumulo, … sia di pompaggio idroelettrico che elettrochimici”;
- una “riduzione della dipendenza dalle importazioni di energia da paesi terzi”;
- un ”incremento di flessibilità del sistema energetico”;
- la “capacità di affrontare restrizioni o interruzioni di approvvigionamento di una fonte energetica”.
Il
Piano riporta correttamente diverse criticità legate agli obiettivi
di “decarbonizzazione
dei settori di uso finale con la sostituzione di vettori energetici
emissivi”,
con una tendenza in palese contrasto con le direttive comunitarie e
nazionali; infatti:
- a fronte di consumi elettrici totali sostanzialmente stabili o in lieve diminuzione (295.508 GWh nel 2016, -0,5% rispetto al 2015), la produzione termoelettrica lorda tradizionale aumenta sensibilmente (192.053 GWh nel 2015, 199.429 GWh nel 2016, +3,8%) 21; il maggior incremento della produzione lorda nazionale nel 2016 rispetto all’anno precedente si è avuto proprio nella produzione termoelettrica da gas naturale (+15 TWh, +13,8%), che ha quasi bilanciato la ridotta produzione di energia elettrica da carbone (-17,6%);
- la produzione fotovoltaica subisce uno stallo (-3,7% nel 2016 rispetto al 2015), frutto evidentemente delle politiche governative degli ultimi anni, fortemente compressive e penalizzanti nei confronti di questo settore in particolare; è di tutta evidenza che, salvo drastiche e per ora non percepibili inversioni di tendenza, con l’attuale quadro normativo e di programmazione incerto, l’obiettivo di 50 GW al 2030 (ulteriori 2500-3000 MW all’anno) appare poco più di una chimera.
Considerando
i dati registrati negli ultimi anni, prima riportati, è di tutta
evidenza come tali obiettivi richiederebbero programmi organici ed
ambiziosi tesi da un lato alla maggiore penetrazione delle fonti
rinnovabili, al momento pressoché assenti, se si prescinde da
limitate e timide agevolazioni fiscali, dall’altro una forte azione
di sostituzione dei combustibili fossili, metano compreso, che invece
viene promosso quale ipotetico e fuorviante “combustibile di
transizione”.
E’
similmente evidente come il progetto in esame , contribuendo ad una
inefficace ed inadeguata campagna nazionale di sostituzione del
carbone con gas naturale, si porrebbe in contrasto con gli obiettivi
del PNIEC.
6.
IMPATTI NEGATIVI DELLE CENTRALI A METANO RICONOSCIUTI DAL PNIEC
Lo
stesso Piano Integrato Nazionale Energia e Clima citato riconosce le
possibili ricadute negative delle centrali termoelettriche a gas
metano su alcune componenti ambientali. Nella Tabella sotto riportata
dei “Potenziali
impatti ambientali tra le tecnologie implementate e vettori
energetici in attuazione del PNIEC e Temi Ambientali Evoluzione
fisica dei suoli e qualità dei suoli”
22
si riconosce un “rischio
diretto”
(D) sul rischio di “suscettibilità
del suolo alla compattazione”
ed un “rischio
indiretto”
(I) sulla “presenza
di carbonio organico negli orizzonti superficiali dei suoli”.
Tale
riconoscimento, unito alla taglia della centrale in conversione
(1.680 MWe), rende necessaria una verifica attenta degli impatti
ambientali.
CONCLUSIONI
La
politica energetica perseguita dai maggiori operatori elettrici
italiani, ancora fortemente condizionati dagli interessi legati alle
fonti fossili, è chiara quanto contraddittoria: si continua ad
enfatizzare il ruolo “non programmabile” e “intermittente”
delle fonti rinnovabili, ma poi si evita accuratamente di assumere
quegli indirizzi legislativi ed applicativi che potrebbero dare una
maggiore programmabilità alle produzioni pulite e conseguentemente
una maggiore stabilità alla rete.
Al
contempo si continua ad investire sulle fonti fossili, sordi ai tanti
appelli che giudicano urgente e necessario un drastico cambio di
indirizzi.
Nello
specifico, la scelta di localizzare alla Spezia un nuovo impianto
termoelettrico a gas, nell’ambito dell’attuale politica
energetica nazionale, è inaccettabile e contraddittoria sulla base
delle considerazioni che seguono:
a)
non si avrebbe, per quanto detto, alcun effetto benefico generale e
locale sui cambiamenti climatici, a seguito della sostituzione del
carbone con gas, ma si continuerebbe la corsa insensata e forsennata
verso la catastrofe ambientale;
b)
si confermerebbe l’obsoleto modello energetico attuale basato
sulle fonti fossili e sulla produzione accentrata, invece di virare
decisamente verso la produzione distribuita e le fonti rinnovabili;
c)
resterebbe ingiustificato, per una presunta esigenza di stabilità
della rete, il ricorso a centrali turbogas che sono della stessa
sostanziale tipologia di quelle che contemporaneamente si dismettono
in altre parti d’Italia da parte della stessa Enel, in quanto
costose e poco competitive rispetto agli impianti a fonti
rinnovabili;
d)
si continuano a ignorare o sottovalutare tutte le tecnologie legate
alle fonti rinnovabili in grado di conferire una maggiore
programmabilità alle produzioni ed un maggiore equilibrio della
rete, come gli accumuli elettrochimici e gli accumuli a sali fusi;
e)
si continua a ignorare l’improrogabile esigenza di attuare idonee
ricerche e investimenti nelle smart grid, settore che accusa
inquietanti ritardi, in modo da predisporre le reti per un maggior
apporto di fonti rinnovabili e per un più efficace scambio di
servizi tra produttori e gestori di rete.
In
conclusione, il progetto in esame appare frutto sostanzialmente di
valutazioni di tipo “geopolitico” piuttosto che
tecnico-economiche, e destinato ad alimentare gli appetiti di un
apparato che è riuscito finora a conservare i privilegi di tipo
oligopolistico, evitando di confrontarsi con tendenze e scenari ormai
affermati a livello mondiale.
Il
vantaggio strategico delle produzioni rinnovabili di avere dei costi
marginali di produzioni tendenti allo zero, con un approvvigionamento
riveniente dalle stesse risorse naturali e sganciato dai delicati
equilibri geopolitici e dalle incertezze del mercato fossile, non
tarderà a mandare fuori mercato tutte le centrali alimentate da
fonti fossili, in un orizzonte temporale che però dipende dalle
resistenze alla introduzione di modelli energetici innovativi e dagli
investimenti che verranno fatti in questa direzione. Sotto questo
aspetto la scelta di introdurre alla Spezia nuovi gruppi turbogas,
per i motivi prima esposti, appare poco più di un colpo di coda
derivante da nostalgie delle fonti fossili, destinato ad essere
contraddetto dai fatti.
Osservazioni
allo Valutazione di Impatto Sanitario
A
pagina 13 del documento generale di Valutazione di Impatto Sanitario
si evidenzia, attraverso dei dati riportati in tabella, come il
progetto apporterà delle significative riduzioni di emissione di gas
in atmosfera, in particolare dalla fase 1 (turbina a gas) e
addirittura dalla fase 2 (turbina a vapore). Questi dati possono
essere letti in maniera significativa rispetto alla situazione
esistente, dove l'esercizio della centrale avviene tramite carbone e
olio combustibile.
Non
sono dati accettabili invece come condizioni generale di lotta ai
cambiamenti climatici e di abbassamento delle emissioni, come sopra
riportato in premessa; l'emissione di 30 mg/mc di Nox (poi 10 nella
fase 2) e di 30 mg/mc di CO2 (sia nella fase 1 che nella fase 2) sono
limiti che non attengono agli obbiettivi di riduzione della CO2 che
l'Unione Europea e lo stesso accordo di Parigi contemplano.
Considerato che, una volta ottenuta l'AIA la centrale potrà operare
per moltissimi anni, siamo notevolmente oltre
ogni impegno di lotta ai cambiamenti climatici.
Nella
tabella a pagina
? si
dice che "l'analisi modellistica ha evidenziato l'ampio rispetto
limiti da D.Lgs. 155/2010 sia nello scenario attuale che in entrambe
le fasi di progetto". Sarebbe opportuno conoscere perché
si evidenzi un "ampio rispetto" e non il "totale
rispetto" come ci si aspetterebbe.
Così
come ci
chiediamo come mai nella
tabella su "ambiente idrico", acque superficiali, acque
sotterranee, suolo e sottosuolo, ci sia una sostanziale previsione
ottimistica dell'impatto sugli scarichi.
Sempre
nella tabella, al passaggio sulla biodiversità stupisce che si
affermi che nell'area vi sia assenza di valenze dal punto di vista
floristico e vegetazionale, e come si affermi in maniera perentoria
che non vi sia "sottrazione di habitat faunistico né
di
ecosistemi connessi con l'occupazione di suolo. In realtà non è
così, le valenze esistono tant’è completamente valutata la
presenza nelle vicinanze di una emergenza naturalistica rappresentata
dalla rana ........ che, pur non essendo SIC (ora ZSC) è compresa
comunque nell'atlante della biodiversità della Regione Liguria.
Le
stesse convinzioni ottimistiche sono comprese nelle parti della
tabella che attengono al tema "paesaggio" e
incredibilmente al passaggio sulla "salute pubblica" dove
si afferma "essendo attese riduzioni di impatto per entrambe le
componenti, non è prevedibile alcun impatto significativo per la
salute pubblica”.
A
pag 63, la VIS riconosce che, per quello che riguarda La Spezia vi
è
un
discostamento tra il dato nazionale e quello locale per quello che
riguarda i disturbi respiratori e le patologie cardiovascolari,
attribuendoli però ad un allucinante "rumore di fondo" per
poi degenerare a pag 65 dando la colpa di questi dati epidemiologici
a fumo alcool ed obesità, fattori senz'altro presenti ma che non
spiegano completamente la situazione data.
Manca
poi, in tutta la VIS, una valutazione su come i nuovi livelli di
emissione andranno accumularsi con altre sorgenti inquinanti presenti
nel territorio spezzino. Oltre al citato Studio Sentieri, relativo al
Siti di Interesse Nazionale di Bonifica, relativo al sito di Pitelli,
ora diventato Sito di Interesse Regionale, non vi è nulla in
relazione a sorgenti inquinanti come: attività portuali,
movimentazione merci e containers, porto e cantieri navali,
contributo del traffico veicolare, altre forme di inquinamento di
origine industriale e civile. Per cui la sopracitata VIS è carente
in quanto evidenzia e modella un solo scenario che è quello della
futura centrale a gas ma nulla dice in riferimento agli impatti
cumulativi.
Osservazioni
generali allo Studio di Impatto Ambientale e allegati
A
pag. 103 dello Studio di Impatto Ambientale, punto 2.5.2 si fanno
alcune valutazioni in merito al Piano Regolatore Portuale del Porto
della Spezia. Nel fare considerazioni di questo tipo, giuste per
visionare l’assieme delle
(manca
una parola?)
ci
si spinge ad affermare che il
progetto
“in tal senso il progetto di conversione dell’impianto non è
incompatibile rispetto alle previsioni di sviluppo del PRP”
dimenticandosi di aggiungere che tale strumento pianificatorio nulla
dice e nulla può prevedere per questo tipo di attività, che non
ricadono peraltro nel territorio di competenza dell’Autorità
Portuale stessa, oggi Autorità di Sistema Portuale Mar Ligure
Orientale.
A
pag. 108 dello Studio di Impatto Ambientale, punto 2.5.4 “Coerenza
del progetto con il piano urbanistico comunale” nello specchietto
successivo si scrive correttamente che l’intervento è in contrasto
con la variante al PUC in itinere, ma si indica la causa
scorrettamente “in quanto nell’area della Centrale e del
Carbonile Est sono esclusi impianti di produzione di energia”. A
questo bisogna aggiungere “ da fonti fossili”.
A
pag 138 dello Studio di Impatto Ambientale, nel punto 3.3.1 si
considerano le alternative di progetto ma sono tutte incentrate sulla
sola produzione elettrica tramite gas, e si considera come
alternativa la sola “Alternativa zero”. In realtà andrebbe fatta
una comparazione con ipotesi di produzione tramite rinnovabili, e più
in generale sulle possibili ricadute, anche occupazionali, del riuso
complessivo dei 70 ettari occupati dalle attività della centrale.
I
livelli di emissione previsti dal progetto in esame sono correlati a
quanto autorizzato e autorizzabile, ma non prendono minimamente in
considerazione
altre possibili fonti di emissione, come le
emissioni fuggitive, non fornendo nessun contributo all’obbiettivo,
indicato dalla Unione Europea, della “neutralità climatica zero”
ed hanno un limite aggiuntivo legato all’ipotesi, più che
concreta, che non si porti a compimento la seconda fase di progetto a
ciclo chiuso di
cui,
come abbiamo evidenziato, ENEL stessa parla, ad esempio attraverso lo
studio di impatto sanitario, di “potenziale funzionamento in ciclo
chiuso (CCGT). Le
emissioni
fuggitive, sono significative per quel che riguarda il metano, gas
climalterante.
La
combustione del gas naturale comporta il rilascio in atmosfera anche
di metalli pesanti: zinco, bario, vanadio, nichel, cromo, cadmio,
piombo, mercurio; questo soprattutto in relazione ai notevoli volumi
di combustibile bruciato.
Una
centrale NGCC da 800 MW può bruciare una quantità di combustibile
di circa un miliardo di metri cubi/anno.
Tra
gli altri inquinanti non dichiarati, vi è il gas metano (principale
componente del gas naturale), che viene rilasciato da perdite
ineliminabili dalle condotte che lo trasportano alle turbine (1,4%).
Il
metano è un gas ad effetto serra, più potente della CO2. La
formaldeide, anche precedentemente citata, è un pericolosissimo
cancerogene.
Tra
gli “altri idrocarburi”, presenti nelle emissioni, giocano un
ruolo rilevante il benzene (cancerogeno) e altri idrocarburi
aromatici e non, tossici o cancerogeni.
Emissioni
in atmosfera stimate per una centrale Ngcc da 780 MW che produce
4.670 GWh/anno
Inquinante Quantità
(t/anno)
Anidride carbonica, CO2 2.050.000
Ossidi
di azoto, NOx 2.700
Particolato 620
Ossidi di zolfo,
SOx 1.500
Metano, CH4 13.000
Monossido di carbonio, CO 1.350
Benzene 300
Altri
idrocarburi 2.900
Formaldeide, CH2O 42
A
pag 128 dello Studio di Impatto Ambientale si afferma che la
realizzazione del progetto di nuova centrale permetterà
“l’azzeramento di emissioni di SO2 e polveri”. Ebbene c’è da
dubitare su questo, soprattutto per il tema polveri perché, se
in
linea
del tutto teorica la combustione del gas metano non genera polveri,
bisogna sapere, in modo sperimentale e non teorico, che sono
disponibili le seguenti misure effettuate su centrali a turbo gas sia
da Arpa
sia da altri laboratori certificati come da tabella sopra riportata.
(tabelle di N. Armaroli e C. Po, entrambi CNR, pubblicate sulla
rivista "Chimica e Ambiente).
Tutti
i dati, ad oggi acquisiti, indicano valori di concentrazioni
inferiori a 1 mg/Nm3
per le polveri, ma non l’assenza di polveri.
I
dati sono ben differenti nel ciclo aperto, e andrebbero valutati in
una corretta analisi quali-quantitativa che tenga conto della potenza
in esercizio fuori scala programmata, e della significativa presenza
di elementi bioaccumulabili.
E’
opportuno sottolineare che alcuni inquinanti come l’ossido d’azoto
, sono precursori di ozono (gas velenosi per l’uomo, gli animali e
le piante). La reazione di formazione è complessa e richiede, sia la
presenza di sostanze organiche volatili in atmosfera, di varia
provenienza, sia la luce solare; si tratta cioè di un processo
fotochimico. L’incidenza di questo processo risulta particolarmente
importante nelle ore centrali delle giornate estive, quando
l’irraggiamento solare raggiunge la massima intensità.
Un
altro dato preoccupante che riguarda le emissioni è la cosiddetta
“portata dei fumi” in cui si evince che, rispetto alla situazione
attuale (funzionamento a carbone del gruppo SP3) in cui, con “fumi
secchi al 6% di O2” il valore complessivo è di 2,15 x 106 Nm3/h,
con la configurazione finale della centrale a gas tale valore,
riferito a “fumi secchi al 15% di O2” quasi raddoppia : 4,15 x
106 Nm3/h.
Per
quello che riguarda lo scarico delle acque rileviamo che durante la
vertenza Enel-Comune della Spezia fu commissionata una perizia allo
studio Finzi Contini che mise in luce l’enorme impatto che lo
scarico termico dell’acqua di raffreddamento produce nel Golfo
della Spezia, addirittura quantificando il danno in svariati miliardi
di lire.
Lo
scarico termico altera il metabolismo degli organismi, altera la
stratificazione dell’acqua di mare determinando situazioni di
anossia sui sedimenti. Inoltre l’uso di biocidi per uccidere le
larve degli organismi incrostanti (fouling) uccide anche le larve di
mitili (Mitylus galloprovincialis) allevati nel Golfo spezzino fin
dalla seconda metà dell’800. Inoltre i biocidi determinano una
sottrazione di ossigeno aumentando BOD e COD, contribuendo ad una
drammatica cascata di eventi che porta a crisi distrofiche
soprattutto nel periodo estivo.
I
mitilicoltori spezzini lamentano da anni e anni, complice il
progressivo mutamento del Golfo, un peggioramento delle condizioni di
allevamento, soprattutto relativamente alla fase di raccolta del seme
spontaneo, verosimilmente dovuto all’uso massiccio di biocidi.
Si
sottolinea poi che al paragrafo 4.4.2 Fauna, ecosistemi e rete
ecologica, tra le fonti bibliografiche consultate, pur citando il
livello “Rete ecologica” della banca dati Biodiversità della
Regione Liguria, non si evidenzia una componente significativa. In
questa banca dati infatti viene indicata la presenza, all’interno
dell’area di pertinenza dell’attuale centrale, di una stazione
Area Nucleo per quanto attiene la specie Rana dalmatina che, come
citato anche nello SIA stesso, è ricompresa come specie
nell’Allegato IV della Direttiva Habitat, richiedendo quindi una
protezione rigorosa (nello specifico questa specie viene indicata
con status di conservazione inadeguato e in peggioramento).
Riteniamo
che la mancanza di un approfondimento su tale elemento infici
l’adeguatezza dello SIA riguardo la componente faunistica e non
solo, in quanto la presenza di un’Area Nucleo è indicatrice anche
di un habitat confacente al mantenimento di questa funzione.
Realizzazione
dell’impianto in due fasi
La
realizzazione dell’impianto viene indicato in due fasi, ciclo
aperto, OCGT (vero obiettivo della nuova centrale per poter accedere
al meccanismo del “Capacity
market”)
e
solo successivamente il ciclo chiuso (CCGT) che potrebbe essere
anche non realizzato, se cambieranno le condizioni di base per la
richiesta di energia.
Si
stima che la costruzione dell’impianto
dovrebbe avvenire in quattro anni e mezzo, ai quali vanno aggiunti i
tempi necessari per l’acquisizione
di tutte le autorizzazioni previste (almeno un anno). Si osserva che
la progressiva accelerazione del cambiamento climatico e le
conseguenti politiche europee e nazionali per tentare di arginare il
fenomeno, saranno orientate, nei prossimi anni, a penalizzare il
ricorso ai combustibili fossili, privilegiando, anche con il ricorso
a meccanismi sanzionatori sulle emissioni di CO2 (carbon tax), la
produzione energetica da fonti rinnovabili, efficientamento
energetico e sistemi di accumulo (Storage). Si intravvede il rischio
di realizzare un impianto industriale obsoleto e fuori mercato già
al
momento dell’entrata
in esercizio.
Conclusioni
Per
i motivi succitati, come da premessa e dalle altre considerazioni, le
scriventi sigle ritengono che il progetto di costruzione di una
centrale a turbogas, realizzata in due fasi (ciclo aperto OCGT ,
ciclo chiuso CCGT) sia da respingere.
Con
i più cordiali saluti
Per
Associazione Posidonia
Gabriella
Reboa
Per
Italia Nostra sezione spezzina
Luca
Cerretti
Per
Lipu La Spezia
Paolo
Canepa
Per
Legambiente La Spezia
Stefano
Sarti
Per
V.A.S. La Spezia
Franco
Arbasetti
La
Spezia 14 Luglio 2020
1
Massimo Falchetta, Enea: Fonti rinnovabili e rete elettrica in
Italia, documento RT/2014/8/ENEA
2
www.terna.it/it/sistema-elettrido/statistiche/evoluzione-mercato.elettrico
3
Da Casa&Clima.com su stime Anie Rinnovabili, 1.01.2019
4
Osservatorio Anie Rinnovabili, gennaio 2020
5
Redazione QualEnergia, articolo “Costi più che dimezzati e boom
di nuovi impianti: gli accumuli con batterie non si fermano più”,
1.08.2019
6
www.terna.it/it/sistema-elettrico/statistiche/evoluzione-mercato-elettrico.
7
Vedasi in proposito la Deliberazione dell’Autorità per l’energia
del 25.01.2010 ARG/elt 5/10 sulla remunerazione della mancata
produzione eolica.
8
GME, Gestore del Mercato Elettrico, 17.06.2013
9
Redazione Quale Energia, 16.10.2016
10
Assessment of methane emissions from the U.S. oil and gas supply
chain, di Ramon A. Alvarez, Daniel Zavala-Araiza, David R.Lyon,
David T. Allen, Zachary R. Barkley, Adam R. Brondt e altri;
Science,
13 luglio 2018, Vol. 361, Issue 6398, pagg. 186-188,
11
Financial Times, Ed. Crooks a New York, 21.06.2018
12
Scienzainrete, 7.06.2017
13
Si riporta un rapido calcolo, in ordini di grandezza, per stimare il
contributo delle perdite di gas all’effetto serra. Assumendo per
il gas un fattore di conversione di 56 gCO2/MJ e per il carbone di
95 gCO2/MJ, un potere calorifero superiore del gas di 39,9 MJ/mc con
una densità di 0,68 kg/mc, avremo:
Quantità
di gas necessaria per produrre 1 MJ nella combustione:
1
mc : 39,9 MJ = 0,025 mc/MJ, pari a 0,025 x 0,68 = 0,017 kg/MJ = 17
g/MJ di gas naturale.
Una
perdita specifica del 3% (ordine di grandezza) significherebbe
ulteriori 17 x 0,03 = 0,51 g/MJ di gas.
Assumendo
una equivalenza ai fini dell’effetto serra di un fattore 72 tra
gas naturale e CO2 (su un orizzonte temporale di 20 anni), il
contributo aggiuntivo delle perdite all’effetto serra sarebbe:
0,51
g/MJ x 72 ~
37 gCO2/MJ (contributo delle perdite);
che
sommati ai 56 gCO2/MJ citati legati alla combustione, portano il
contributo del gas naturale a (56+37) ~
93 gCO2/MJ, tali quindi da annullare sostanzialmente il beneficio
della sostituzione del carbone con il gas.
14
Disponibile sul sito Science Direct.
15
Organizzazione internazione che promuove campagne per proteggere le
comunità dagli impatti dell’estrazione di petrolio e gas
16
Reccom.org, Fabiana Leoncavallo, 20.05.2020
17
Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica, Dipartimento di
commercio degli Stati Uniti
18
Redazione QualEnergia, 29.09.2017
19
Dal Enea.it/Stampa, Comunicato del 19.12.2019
20
Fonte: Redazione QualEnergia, 1.02.2019.
Fonte:
Terna, Bilanci energia elettrica 2016 e 2015)
22
Rapporto preliminare ambientale, pag. 59
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