sabato 18 luglio 2020

Osservazioni alla trasformazione della centrale Enel della Spezia


 


Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare
Direzione Generale per la crescita sostenibile e la qualità dello sviluppo


Via Cristoforo Colombo 44 - 00147 Roma


Osservazioni al progetto: Sostituzione dell’unità a carbone esistente con una nuova unità a gas per la Centrale Termoelettrica “Eugenio Montale” della Spezia


Premessa

L’Accordo di Parigi, gli obiettivi di decarbonizzazione, l'urgenza della crisi climatica ma anche l’emergenza sanitaria richiedono, da parte di tutti gli Stati del Mondo, Italia compresa, un cambio di rotta forte e innovativo che deve vedere il settore energetico protagonista di un cambio radicale non solo nel modo di produrre energia elettrica e termica, che entro il 2040 dovrà escludere l’uso delle fonti fossili, ma anche nel modo di approvvigionamento, di distribuzione, di consumo attraverso un modello distribuito da fonti rinnovabili in cui i consumatori (cittadini, amministrazioni e imprese) diventano produttori e autoconsumatori e in cui gli elettrodomestici non saranno solo più punti di consumo, ma anche fonti di accumulo. Così come la mobilità, che dovrà essere ripensata ed adeguata alle necessità della transizione energetica e alla decarbonizzazione.
In questo nuovo scenario, determinante per la salvaguardia delle comunità cittadine, dei centri urbani, dei territori agricoli e di pregio e dello stesso tessuto produttivo, sarà non solo la posizione che ogni Paese avrà rispetto all’urgenza di affrontare e combattere i cambiamenti climatici, ma anche quali strade si vorranno percorrere. Certo è, che questo cambiamento richiede investimenti importanti non solo in termini di infrastrutture e impianti, ma anche e soprattutto in termini di reti, di accumuli, di mezzi di trasporto collettivo, di veicoli ed utenze smart e di tutta l’economia nazionale.
Per fare questo è urgente e necessario affrontare le “regole del gioco” della nostra economia, nate ai tempi di Adam Smith (1723–1790, padre fondatore dell'economia politica) e cresciute nell’era dell’abbondanza di energia fossile. Per questo tagliate su misura e strumentali per questo tipo di modello di sviluppo.
Per consentire la transizione verso le rinnovabili occorre intervenire prima di tutto sulle regole, in modo da eliminare le barriere burocratiche che impediscono lo sviluppo delle tecnologie sostenibili, e di rendere economicamente conveniente la loro applicazione.



A seguito dei negoziati a Bruxelles sull’aumento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, e stimolato dalla necessità di presentare un PNIEC (Piano Integrato Energia e Clima) coerente rispetto agli obiettivi già assunti dal nostro Paese, anche in Italia il dibattito è aperto. Un dibattito, però, che piuttosto che mirare alla decarbonizzazione attraverso lo sviluppo delle fonti rinnovabili, paradossalmente, continua a focalizzare l’attenzione sul metano e sul suo presunto ruolo quale fonte di transizione e di aiuto al raggiungimento dell’obiettivo.

Il primo passo per il raggiungimento, nel nostro Paese, degli impegni internazionali è senz’altro la chiusura entro il 2025 delle centrali a carbone, per una capacità di oltre 7.900 MW. Un tema che sta generando a livello nazionale, così come a livello locale, un dibattito acceso sul futuro delle comunità locali che vivono intorno a queste centrali. Da una parte i territori esprimono giustamente l’aspirazione legittima di vedere realizzata una riconversione nel rispetto della piena sostenibilità ambientale (che escluderebbe ogni impianto a fonte fossile) e la necessità di salvaguardare l’economia locale e i livelli di occupazione attuale. Dall’altra si pone la giusta necessità di mantenere in sicurezza la rete e in generale il servizio di alimentazione elettrica dell’economia del paese.
Infatti, per rispondere a quest’ultima esigenza, il Ministero dello Sviluppo Economico italiano pone la necessità di costruire non solo tra i 3 e 4.000 MW di nuove centrali elettriche a gas (dipende da quale documento si tiene in considerazione tra PNIEC e proposte Terna discusse nei tavoli di lavoro del Ministero), ma anche diversi investimenti pubblici in infrastrutture del gas, in modo da aumentare la capacità di approvvigionamenti a metano del nostro paese.
A rafforzare tale convinzione e con la scusa di mantenere in sicurezza la rete e i servizi elettrici, l’introduzione del “Capacity Market” che, attraverso una remunerazione economica aggiuntiva, mira ad agevolare e rendere più competitive sul mercato le centrali programmabili (ovvero le centrali termoelettriche tradizionali a gas metano). A tale sistema che, in linea di principio, potrebbe essere aperto sia a impianti da fonti fossili che da rinnovabili (in forma aggregata), possono invece accedere solo gli impianti inquinanti, esistenti o di nuova costruzione, per i quali per i prossimi 15 anni sono previste risorse per 1-1,4 miliardi di euro l’anno, pagati in bolletta dai consumatori. Un costo che potrebbe essere ridotto se associato invece alle sole centrali esistenti utilizzate per eventuali momenti di picco.
Di fronte a tale strategia governativa la prima domanda da porsi è se il gas metano possa davvero aiutare il nostro Paese a raggiungere gli obiettivi di decarbonzzazione. Come noto, la molecola del metano ha un “effetto serra” maggiore della CO2, ma grazie a una emivita di 10 anni non ha destato fino ad oggi grosse preoccupazioni. Ma dopo dieci anni metà del metano si trasforma in vapore d'acqua e in CO2. A parità di apporto energetico, il metano è responsabile di minori emissioni CO2 rispetto al petrolio (25% in meno) e ancor meno del carbone (quasi la metà), ma questo non vuol dire non essere climalterante.
E visto il tema dell’urgenza e dell’emergenza climatica, questa appare da sola già una motivazione sufficiente a ritenere che il metano non sia una risorsa energetica che fa bene al clima, e quindi assolutamente non idonea a traghettare il nostro Paese al 2040, come invece prevede il PNIEC.

La seconda domanda da porsi riguarda invece in modo specifico il nostro sistema energetico: alla luce degli obiettivi di crescita dell’impiego delle fonti rinnovabili, e della conseguente riduzione della domanda per il gas metano, che senso ha investire denaro pubblico per aumentare le capacità di approvvigionamento di un gas fossile nel nostro Paese? Non solo, ma vista l’attuale sovracapacità delle centrali a metano esistenti in Italia, quali vantaggi porterebbe al nostro Paese continuare ad investire in nuove centrali a metano, visto il sottoutilizzo di quelle esistenti? Siamo proprio sicuri che, per compensare la chiusura delle centrali a carbone, l’unica strada percorribile sia quella delle delle nuove centrali a metano? Alla luce della crescente elettrificazione dell’economia (vedi quanto accade in tema di mobilità elettrica e di riscaldamento grazie alle pompe di calore), non sarebbe invece più logico puntare a sviluppare in tempo utile la rete e le infrastrutture elettriche? E proprio per meglio accogliere in rete le fonti rinnovabili, non sarebbe più lungimirante puntare sullo sviluppo della capacità di accumulo nel nostro Paese, valorizzando anche i pompaggi idroelettrici che, grazie alla lungimiranza dei nostri nonni e bisnonni, già esistono in gran numero e sono operativi e sottoutilizzati nel nostro Paese?

Quello che appare chiaro dai numeri pubblicati anche da Terna e Snam è che l’Italia non deve commettere l’errore di sostituire i 7.900 MW a carbone con nuovi impianti a gas. Le nuove centrali elettriche a metano costruite negli ultimi due decenni hanno prodotto una situazione di sovrabbondanza: oggi, infatti, il parco di generazione esistente ammonta a 115.000 MW di potenza installata, quasi il doppio rispetto alla domanda massima sulla rete (58.219 MW nel luglio 2019, fonte Terna). E basterebbe un'analisi delle ore medie annue di esercizio delle centrali a gas esistenti, 3.261, a dimostrare che un leggero aumento delle ore di lavoro, portandole a 4.000 ore medie l’anno, sarebbero sufficienti a soddisfare il fabbisogno energetico italiano, spingendo in contemporanea e in modo decisivo sulle rinnovabili, l’efficienza e gli accumuli per superare questa fase di transizione senza dover investire in nuove centrali.
Sebbene dal punto di vista climatico non si tratti di un scenario auspicabile, in quanto richiederebbe in sé un aumento dei consumi di metano, dal punto di vista delle risorse economiche metterebbe certamente il nostro Paese nelle condizioni di avere maggiori risorse (comprese quelle del Capacity Market) da investire da subito in un sistema più sostenibile, sviluppando benefici climatici, economici e in termini di nuovi posti di lavoro.

Ma per raggiungere tali obiettivi il nostro Paese deve, fin da subito, iniziare ad investire in modo massiccio sulle fonti rinnovabili, a partire da solare ed eolico, di cui il nostro Paese ha grandi potenziali, con numeri di installazioni ben più alti di quelli fino ad oggi trattati anche nei cosiddetti anni d’oro (2009 - 2011). Infatti sebbene nel 2019 le fonti rinnovabili abbiano continuato a crescere, questo è avvenuto, come negli anni precedenti, con ritmi del tutto inadeguati rispetto a quanto l’Italia potrebbe e dovrebbe fare per rispettare gli impegni nella lotta ai cambiamenti climatici. Il rallentamento delle installazioni in questi anni è stato rilevante in particolare per il fotovoltaico con 1,4 GW installati negli ultimi tre anni a fronte dei 14 GW installati nel triennio 2011-2013, mentre l’eolico passa, rispetto agli anni 2011-2012, da una media di 1.000 MW/anno di nuovi impianti a 449 MW/anno.

Non solo, ma a confermare che in Italia non vi sia alcun bisogno di nuove infrastrutture basta guardare l’andamento dei consumi di gas metano che, come dimostrano i Bilanci energetici nazionali, mettono in evidenza come la produzione termoelettrica annuale da metano abbia raggiunto il suo massimo storico nel 2007 (anno pre crisi) con un consumo di 34 miliardi di mc. Le previsioni del PNIEC, considerando la chiusura di tutte le centrali a carbone nel 2025, confermano un consumo di gas metano di 37.709 ktep (43,5 miliardi di smc) al 2040, pari al 30% del consumo interno lordo, affidando a questa fonte inquinate un ruolo ancora determinante nel sistema energetico nazionale. Eppure dando uno sguardo ai consumi del gas metano, dati dalla stessa Snam, è facile osservare come questi siano in diminuzione e secondo le previsioni non raggiungano i 30 miliardi di mc nel 2025 e i 26 mld mc nel 2030.
Numeri che confermano come nel nostro Paese non sia assolutamente necessaria la realizzazione di nuove infrastrutture. Anche perché la maggior parte del gas sarebbe di importazione e questo non andrebbe a garantire neanche il tema dell'indipendenza energetica.




Documento di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna

Non solo, ma analizzando più da vicino il lavoro svolto da Snam non si evince alcuna criticità nella fornitura di gas naturale occasionale, ovvero nelle ore e momenti di massima richiesta. Infatti come è possibile vedere dal grafico, la punta massima di consumo si è registrata nel 2012 con 464 milioni di mc di gas consumato, e il settore che maggiormente incide in tal senso è quello civile.
Da allora l’Italia è stata caratterizzata da inverni più caldi e le abitazioni stanno subendo un progressivo, seppur lento, miglioramento grazie alle politica di efficientamento degli edifici e degli impianti. Le stesse previsioni, sempre a cura Snam-Terna, non lasciano prevedere aumenti, neppure nel peggiore degli scenari (BAU 2025 e 2040), compresi i momenti di picco, che ormai si sono spostati dal periodo invernale - dove a causa del freddo generalmente si registravano i momenti di maggior richiesta di gas - a quello estivo, periodo in cui vi è una maggiore necessità di energia elettrica, facilmente producibile con altre tecnologie.

DOMANDA GIORNALIERA DI GAS IN CONDIZIONI DI FREDDO ECCEZIONALE

Documento di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna


Dal punto di vista elettrico, infatti è giustificabile la previsione di aumento dei consumi considerata dal PNIEC, considerando sia gli spostamenti di richiesta energetici in base alla stagionalità, e considerando l’elettrificazione dei settori mobilità e riscaldamento. Incremento che però nel Piano Integrato Energia e Clima appare modesto, passando da 60,5 GW registrato nel 2015 ai 61,9 GW. Un valore che può essere facilmente coperto attraverso le fonti rinnovabili, con particolare riferimento al solare fotovoltaico e eolico, connesse a sistemi di accumulo che insieme all’idroelettrico e ai pompaggi può svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione di potenza alla rete, previsti dallo stesso PNIEC, in un sistema decentrato. In prospettiva anche da condensatori o volani elettromeccanici. Infatti il PNIEC prevede di incrementare da 7 a 12 di GW idroelettrici per pompaggi e di disporre di 6 GW nuovi di stoccaggio elettrochimico.


DOMANDA ELETTRICA D AL 2000



Documento di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna


VALORI DELLA PUNTA DI CARICO ELETTRICO - SCENARI

Documento di descrizione degli scenari 2019” – Snam, Terna


In questo scenario, è del tutto evidente che la previsione di nuovi 3 o 4 GW di centrali a gas appare del tutto immotivata, se non per assecondare le utility delle fossili e del grande termoelettrico che punta ancora a controllare il mercato dell'energia.


Scenari mondiali

Gli obiettivi che sono alla base del progetto in esame sono sostanzialmente:
a) l’inserimento nel contesto nazionale ed europeo di riduzione delle fonti maggiormente inquinanti e nell’ottica di una complessiva decarbonizzazione;
b) la salvaguardia della stabilità e dell’affidabilità della rete elettrica in relazione alla crescente produzione da fonti rinnovabili.
Il progetto in esame non darà alcun apporto a tali obiettivi, ed anzi contribuirà ad allontanarli ulteriormente, come si mostrerà nel seguito del presente documento.
Sono disponibili da tempo numerosi altri studi e ricerche che ipotizzano scenari con il 100% di produzione rinnovabile. Consideriamo quindi acquisito e assodato nella presente relazione il dato per cui “non sembrano ormai sussistere fondamentali limitazioni di tipo tecnico a questo risultato1
Mentre in Italia la diffusione delle fonti rinnovabili registra in questi anni preoccupanti battute di arresto a causa di inquietanti indirizzi politici ancora intrisi di nostalgie per le fonti fossili, alcuni stati come l’Austria, la Svezia, la Norvegia e la Svizzera superano da decenni la quota rinnovabile del 50% nelle reti elettriche.
In Italia il contributo delle FER (idroelettrica, fotovoltaica, eolica, geotermica, bioenergie) nel 2018 si attesta sul 32% 2, a fronte di una richiesta totale in rete di circa 321 TWh, mentre in Germania la capacità “non programmabile” legata alle fonti rinnovabili ha raggiunto lo stesso ordine di grandezza della potenza media assorbita dalla rete. In tale Paese il prezzo dell’energia elettrica sul mercato all’ingrosso talvolta è stato nullo o addirittura negativo, segnalando la necessità di disconnettere una quota di impianti dalla rete in alcune occasioni caratterizzate da alte produzioni rinnovabili. Un altro dato significativo, che dovrebbe far riflettere i decisori politici italiani, è che in tale Paese a differenza dell’Italia si svolgono approfonditi studi per migliorare la gestione della rete in relazione ad un forte contributo da rinnovabili.
Anche in Spagna l’evoluzione tecnologica su alcuni aspetti legati alla diffusione delle FER è all’avanguardia. Questo Paese può disporre di un parco da fonti rinnovabili con un contributo alla produzione elettrica che da anni è superiore al 50%; inoltre, mentre in Italia il solare termodinamico è allo stadio poco più che sperimentale con il progetto Archimede, quel Paese ha acquisito una notevole esperienza in questo settore, di cui è il più significativo produttore al mondo, ed è in grado di mantenere la produzione nominale fino a 15 ore grazie ai sistemi di accumulo. In questo modo le centrali possono funzionare anche nei periodi senza insolazione ed hanno una programmabilità paragonabile a quelle tradizionali; per queste innovazioni lo Stato remunera il produttore, mentre in Italia si ricorre al “capacity market”, ennesimo aiuto di stato alle fonti fossili.
La Danimarca ha sempre storicamente fatto scuola nel settore eolico. Mentre in Italia si finanziavano aziende assistite dallo Stato (es. Fiat, Aeritalia) per produrre generatori di media taglia poco evoluti e competitivi, destinati ad una veloce obsolescenza, in quel Paese si sviluppava, tramite una proficua collaborazione tra pubblico e privato, una forte esperienza nella produzione di generatori eolici di media e grande taglia, che oggi vengono esportati e apprezzati per la loro affidabilità in tutto il mondo. Mentre in Italia molti operatori - comprese le maggiori aziende pubbliche - ancor oggi si ostinano ad assegnare alle FER ruoli complementari e secondari rispetto al parco termoelettrico, in Danimarca da tempo l’eolico è la fonte attorno a cui ruota l’intero sistema elettrico, con obiettivi di copertura dei propri consumi elettrici del 50% entro il 2020, mentre in alcune situazioni particolari la produzione ha superato il consumo. Per tale obiettivo si è accettato un alto rapporto tra potenza degli impianti FER (che tuttavia hanno un costo marginale di produzione tendente allo zero) e potenza richiesta al consumo, e sono stati sviluppati studi e investimenti per ottimizzare il dimensionamento del parco eolico, quali l’interconnessione elettrica europea (in modo da poter all’occorrenza esportare la produzione in eccesso), l’elettrificazione dei trasporti, l’accumulo in sistemi di teleriscaldamento.

1. CARENZA DI INVESTIMENTI NELLE TECNOLOGIE DI ACCUMULO

Investendo adeguatamente nelle nuove tecnologie, a partire da quelle di accumulo, le centrali di produzione da fonti rinnovabili, sia in piccola che in grande scala, sono in grado di fornire una produzione programmabile di affidabilità pari o superiore a quella delle centrali a gas. Ne è un esempio emblematico la crescente diffusione dei sistemi di accumulo fotovoltaico in Italia. Pur in presenza di una normativa confusa e procedure burocratiche farraginose, in Italia nel 2018 si sono installati circa 10.000 sistemi di accumulo abbinati a impianti fotovoltaici residenziali, per lo più con batterie al litio 3, con un incremento del 25% rispetto all’anno precedente. A fine 2019, risultavano installati circa 23.000 sistemi di accumulo, con una potenza complessiva di circa 103 MW ed una capacità massima di 222 Mwh 4. Con tali accumuli, l’utente è in grado di mantenersi autosufficiente nella copertura dei fabbisogni fino al 70-80% ed oltre, sgravando le reti di trasporto e contribuendo ad una minore vulnerabilità del sistema elettrico. Mentre il mercato privato si muove in linea con tendenze generali ormai univoche, gli investimenti pubblici si limitano alle grande taglie con progetti innovativi ma allo stadio sperimentale, come il progetto Terna “Storage Lab”.
Mentre il sistema italiano investe ancora nelle centrali turbogas, mostrando ritardi e retaggi nella diffusione di sistemi di accumulo, e solo le Regioni Lombardia e Veneto hanno emanato bandi per l’incentivazione di tali tecnologie in impianti domestici di piccola taglia, la Spagna, che peraltro ha un piano per portare le rinnovabili al 74% del mix elettrico al 2030 e che ha già varato programmi di incentivazione nazionali dei sistemi di accumulo, ci dà una severa lezione sui provvedimenti necessari per promuovere realmente l’autoconsumo e l’indipendenza energetica. Con un organico provvedimento legislativo iniziato nell’ottobre 2018 e ultimato con un successivo decreto del Consiglio dei Ministri, questo Paese ha attuato una profonda innovazione per favorire la generazione diffusa mediante:
- facilitazioni e semplificazioni nella realizzazione impianti fotovoltaici di piccola e media taglia destinati all’autoconsumo;
- la possibilità di una gestione condivisa dell’impianto a livello di associazioni, imprese, intere comunità;
- una valorizzazione dei ruolo dei prosumer (produttori-consumatori) con la remunerazione dell’energia prodotta, non utilizzata e immessa in rete, con una compensazione tariffaria che può arrivare al 100% del valore dell’energia consumata nel mese;
- sgravio di oneri di sistema (che nella normativa italiana condizionano pesantemente i produttori da rinnovabili e chiunque intenda aumentare risparmio e autoconsumo) a favore dell’autoconsumo.
La funzione di presunta “facile modulabilità” delle nuove centrali a gas di cui al progetto in esame, rispetto alla presunta “non programmabilità” degli impianti a fonti rinnovabili, è anch’essa da contestare. Le nuove tecnologie, ed in particolare quella fotovoltaica ed eolica, hanno assimilato processi evoluti di modulazione della potenza. I moderni inverter fotovoltaici hanno dei sistemi di regolazione che consentono loro, senza organi in movimento ma semplicemente grazie a loop di controllo elettronico, non solo di rispettare i parametri di rete in tensione e frequenza e ricercare le condizioni di funzionamento ottimali (MPPT, Maximum Power Point Tracker), ma di partecipare alla stessa gestione della rete (servizi di rete), regolando la potenza attiva e reattiva.
Simili considerazioni si possono fare per la produzione eolica, che dispone di sistemi di conversione evoluti come gli inverter a doppio stadio e possono partecipare attivamente nel mantenere la stabilità della rete.
Mentre in Italia indugiamo sulle fonti fossili, in altri paesi si stanno formando solidi comparti industriali nel settore storage. Il Bloomberg New Energy Finance (BNEF) nel suo Energy Storage Outlook 2019 sostiene che il costo per kWh delle batterie si dimezzerà ancora da oggi al 2030, dopo una riduzione dell’85% dal 2010 al 2018. Lo stesso Istituto stima ben 1.000 GW/2.850 GWh in tutto il mondo al 2040 di storage stazionario per la rete elettrica 5, con una crescita di 122 volte rispetto alla fine del 2018 e con investimenti connessi che molti esperti stimano in 660 miliardi di dollari.
Negli USA si moltiplicano gli esempi di aziende che preferiscono investire su grandi installazioni di storage o su impianti ibridi eolico/fotovoltaico/accumulo per coprire i picchi di domanda e bilanciare domanda e offerta, anziché costruire nuove centrali “peaker” alimentate a gas naturale. Sorgerà in Oklahoma un impianto ibrido eolico+fotovoltaico+batterie di NextEra Energy Resources da 700 MW, in accordo con un distributore locale di energia. Stessa tendenza in California e Oregone, dove si sta puntando su grandi impianti fotovoltaici o ibridi con batterie integrate, prevedendo idonei incentivi fiscali.

2. INCREMENTO STORICO DELLA POTENZA RINNOVABILE E INSTABILITA’ DELLA RETE

Un altro aspetto significativo del nostro sistema elettrico è la sua “naturale” evoluzione verso un maggior protagonismo delle FER, senza che questo abbia comportato significativi problemi di stabilità della rete.
Confrontando pochi semplici dati 6 si possono ricavare interessanti conclusioni sull’impatto delle fonti rinnovabili sul sistema elettrico.
Nel 2005 la copertura della domanda totale di energia elettrica, pari 290,6 TWh, era affidata per il 16% alle fonti rinnovabili, in prevalenza all’energia idroelettrica (12,2%).
Nel 2018, a fronte di una domanda di 303 TWh, il contributo delle rinnovabili è balzato al 33,5%, pari a circa 55 Twh aggiuntivi, di cui il 16,1% da fotovoltaico, eolico e geotermico. Ciò, si noti bene, senza una particolare predisposizione del sistema elettrico a ricevere tale produzione, impensabile fino a pochi anni prima. Anzi, l’impreparazione del sistema – o se si preferisce la storica mancanza di programmazione nell’evoluzione della rete rimasta sostanzialmente rigida e centralizzata - ha perfino portato a negare l’immissione in rete di una quota della produzione pulita, come quella di parchi eolici nel sub-appennino Dauno7.
Gli ultimi dati disponibili sono ancora più significativi.
Nel 2019 le rinnovabili hanno coperto il 35,9% (35,5% scorporando i dati di pompaggio dall’idroelettrico) della domanda elettrica nazionale, con una produzione complessiva di 114,6 Twh (il massimo storico), a fronte di una domanda di 316,6 kWh. In questo anno l’eolico ha soddisfatto il 6,3% della domanda elettrica italiana, mentre il fotovoltaico copre il 7,6%, arrivando insieme al livello più alto di sempre.
In ogni caso, l’immissione nel sistema elettrico di una percentuale così significativa di produzioni rinnovabili non ha determinato i problemi che studi superficiali e/o tendenziosi prevedevano.
In merito riportiamo un esempio emblematico. Nel 2013 una Deliberazione dell’Autorità per l’Energia (AEEG n. 243/2013) impose a tutti i titolari di impianti di impianti fotovoltaici di potenza superiore a 6 kW di adeguare con determinate tempistiche le protezioni di interfaccia con la rete elettrica in media e bassa tensione, in modo da poter restare connessi per oscillazioni della frequenza nel campo 49-51 Hz (valore nominale 50 Hz). La disposizione creò notevoli incertezze e disagi a tutti gli operatori e produttori del settore, costretti a oneri aggiuntivi di gestione dell’impianto, sotto minaccia di sospensione e/o cancellazione degli incentivi percepiti. La disposizione sarebbe derivata da non ben definiti studi da parte CEI e Terna per cui l’aumento di connessioni di impianti FER avrebbe potuto determinare instabilità sulle reti. La previsione si rivelò poi del tutto sbagliata, e la frequenza non si è mai distaccata per più di qualche punto percentuale di Hz, o al massimo di un decimo di Hz in situazioni critiche, dal valore nominale. Per cui il provvedimento appare oggi, più che derivante da reali necessità, teso a scaricare sui produttori le incertezze e le incapacità di programmazione di una rete mal gestita.
D’altronde già nel 2013, tra le 14 e le 15 del 16 giugno, per la prima volta nella storia energetica italiana, il prezzo di acquisto dell’energia elettrica (PUN, Prezzo Unico Nazionale) è sceso a zero su tutto il territorio nazionale, in quanto in quelle ore fotovoltaico, eolico e idroelettrico hanno coperto al 100% la richiesta di elettricità, pari a 31.199 MW (ore 14) e 30.565 MW (ore 15) 8, peraltro senza significativi fenomeni di instabilità delle reti. Un altro esempio emblematico mostra al contrario la vulnerabilità di sistemi elettrici basati sulle fonti fossili e sull’attuale modello perseguito da Terna e dai principali operatori del mercato elettrico.
Alle 3,27 di domenica 28 settembre 2003, a causa di un albero caduto su una linea elettrica che collega l’Italia con la Svizzera, per un effetto domino dovuto alla eccessiva rigidità della rete, l’intera Italia rimase senza energia elettrica, ad eccezione di Capri e della Sardegna, dotate di reti autonome. La corrente ritornò alle 9 al nord, alle 16,30 al centro e alle 19 al sud, mentre in Sicilia si aspettò fino alle 22.
L’episodio mostra tutti i limiti di un sistema rigido e accentrato come quello attuale, in cui si inserisce a pieno titolo il progetto in esame, e le direzioni verso cui sarebbe invece opportuno investire (e non con fuorvianti e pasticciati “piani anti-blackout): decentramento della produzione verso la generazione diffusa, programmazione di bacino senza costose e vulnerabili infrastrutture di trasporto, conversione degli impianti alle fonti rinnovabili, intrinsecamente più affidabili (si pensi agli impianti fotovoltaici, sostanzialmente privi di organi in movimento) ed esenti da limitazioni dovuti al reperimento dell’energia primaria.

3. ESTEMPORANEITA’ E CONTRADDIZIONI NELLO SVILUPPO DI NUOVE CENTRALI TURBOGAS

Un ulteriore argomento, che mostra la carenza di strategie a lungo termine, la contraddittorietà delle tendenze in corso e la persistenza di nostalgie legate alla fonti fossili, si ricava da una semplice analisi storica dei provvedimenti Enel nei riguardi delle centrali termoelettriche a gas.
In un’audizione alla Commissione Industria del Senato della Repubblica del 15.10.2014, l’amministratore Enel Francesco Starace annunciava la dismissione o la riconversione alle fonti rinnovabili di centrali termoelettriche per 11 GW, nonché progetti interessanti per far entrare le fonti pulite nel mercato del dispacciamento 9. Con il programma Futur-e Enel specifica meglio le centrali in dismissione, tra cui Bari (a olio gas, 203 MW), Rossano (a olio-gas, 1738 MW, ripotenziata con 4 gruppi turbogas da 115 MW cad. ), Campomarino (turbogas, 88 MW), Giugliano (turbogas, 352 MW), Termini Imerese (ciclo combinato e ciclo semplice, 1340 MW).
Non si vedono motivi validi per cui Enel dismetta impianti a gas da un lato per costruire nuovi impianti dall’altro; né per cui non si possa prevedere una riqualificazione di impianti a gas esistenti piuttosto che realizzare nuove costruzioni; né per quale motivo si continui ad aumentare la potenza del parco di generazione pugliese, già sovradimensionato e destinato ad esportare gran parte della produzione, rinunciando ad altri siti esistenti più baricentrici e con minori esuberi di produzione.




4. DIFFORMITA’ DAL REGOLAMENTO UE 2018/1999 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO E DALLE DIRETTIVE COMUNITARIE IN TEMA DI LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI

Diversi studi hanno fortemente ridimensionato, fino ad annullarle, le previsioni dei benefici indotti alle emissioni climalteranti dalla sostituzione di carbone con gas naturale nelle centrali elettriche.
Un recente studio americano dei ricercatori del NOAA (National Oceanic and Atmosferic Administration, Dipartimento di commercio degli Stati Uniti) di Boulder (Colorado)10, basato su centinaia di rilevazioni delle filiere produttive di petrolio e gas negli anni 2012-2016, in nove aree che rappresentano il 30% circa della produzione di gas naturale negli USA, è considerato la stima più completa finora realizzata sugli impatti climatici dell’industria fossile. Lo studio stima che le emissioni di gas siano del 60% circa superiori alle stime dell’inventario dell’Agenzia per la protezione ambientale (EPA). Tale differenza è dovuta sostanzialmente al fatto che negli inventari tradizionali non si rilevano correttamente le emissioni rilasciate in condizioni operative “anormali”, come emissioni da sfiati di serbatoi e valvole, perdite nello stoccaggio, manipolazione e distribuzione del gas. I nuovi studi si basano non solo su rilevazioni nei singoli pozzi di estrazione, ma anche su calcoli “top down” come rilievi aerei delle regioni produttrici. Le perdite ammonterebbero al 2,3-2,7% della produzione di gas. Ciò determina - conclude lo Studio - un impatto sul clima in un orizzonte temporale di 20 anni equivalente alle emissioni di CO2 di tutte le centrali elettriche a carbone operanti negli USA nel 2015; in altre parole, le emissioni di metano in tale periodo avrebbero azzerato i benefici sul clima apportati dalla conversione a metano degli impianti a carbone nello stesso periodo. Una conclusione dirompente, che impone una revisione delle attuali politiche di “decarbonizzazione” in corso, compresa quella perseguita in Italia. Se le conclusioni dello studio si potessere estendere al nostro Paese, almeno come ordini di grandezza – il che appare del tutto verosimile – occorrerebbe rivedere sostanzialmente il contributo del gas naturale nella emissione di CO2 in impianti di combustione. Se è vero che al gas naturale può essere assegnato un fattore di conversione in gas serra pari a 56 gCO2/MJ, a fronte dei 95 gCO2/MJ del carbone, occorre però considerare che tale fattore va sommato agli effetti dovuti alle emissioni dirette e fughe di gas da pozzi, condotte e installazioni estrattive, annullando praticamente – come sostiene il prestigioso studio americano citato – gli effetti positivi della sostituzione del carbone con il metano negli impianti di combustioni.
Steven Hamburg, capo scienziato di Environmental Defense Fund (EDF), che ha svolto lavori approfonditi sui cambiamenti climatici e sulle emissioni di metano nella catena di approvvigionamento del gas naturale, con relativi impatti sull’ambiente e sulla salute umana, con oltre 100 articoli scientifici sul tema, ha affermato, alla luce di queste nuove stime, che per il gas naturale l’impatto totale del gas serra è peggiore della combustione a carbone” 11 .
Vincenzo Balzani, accademico dei Lincei, docente emerito di Chimica all’Università di Bologna, lauree honoris causa presso le Università di Friburgo (CH) e Shanghai (Cina), autore di diverse pubblicazioni scientifiche, afferma in un documento 12:
E’ vero che a parità di energia prodotta la quantità di CO2 generata dal gas naturale è inferiore di almeno il 20% di quella generata quando si usano derivati del petrolio, ma è anche vero che il metano è un gas serra 72 volte più potente di CO2, quando l’effetto è misurato su 20 anni, e 25 volte più potente quando misurato su 100 anni. Poiché nella filiera lunga del metano si stima ci siano perdite di almeno il 3% rispetto alla quantità di gas usato, è chiaro che passando al metano non si combatte affatto il cambiamento climatico”. 13
In relazione alla crescente penetrazione delle fonti rinnovabili nel sistema elettrico, è agevole dimostrare che questo modello innovativo lascia uno spazio ristretto – ed a breve termine – alle fonti fossili.
Il Prof. Mark Z. Jacobson, docente di ingegneria civile e ambientale all’Università di Stanford, insieme a colleghi di altri atenei, ha svolto una ricerca per garantire energia rinnovabile sicura ad almeno 139 nazioni, che ha portato alla pubblicazione dello studio “Renewable Energy” 14, riportante diversi modelli che permetterebbero a 139 paesi di raggiungere il 100% di alimentazione delle utenze da fonti rinnovabili in tutti i settori entro il 2050, con un target intermedio dell’80% entro il 2030. Il ricercatore sostiene che in base ai risultati raggiunti, posso dire con maggior sicurezza che non c’è alcuna barriera economica o tecnica che impedisca il passaggio del mondo intero all’utilizzo di energia rinnovabile per il 100% della domanda, il tutto a un basso prezzo e con una rete elettrica stabile. … Una soluzione di questo genere permetterebbe di avvicinarsi molto all’eliminazione del problema del riscaldamento globale e di impedire i 4-7 milioni di decessi causati ogni anno dall’inquinamento atmosferico, al contempo si riuscirebbe però a garantire a tutti la sicurezza energetica”.
I risultati dello studio hanno dimostrato che:
  • vi sono molte possibilità di ottenere stabilità nella rete elettrica utilizzando al 100% energie rinnovabili;
  • il costo per unità di energia prodotta, inclusi i costi indotti (salute, cambiamento climatico ecc.) sono circa un quarto di quelli che si affronterebbero se si continuasse ad utilizzare energia da fonti non rinnovabili;
  • diminuirebbero i costi pagati dai consumatori, in quanto si dimezzerebbero i costi di produzione rispetto a quelli legati ai combustibili fossili (trivellazioni, lavorazione, raffinamento e trasporto).
Mark Delucchi, coautore dello studio “Renewable Energy” prima citato e ricercatore dell’Università di Berkeley in California, afferma che il nostro lavoro dimostra che questo risultato può essere raggiunto in quasi tutte le nazioni del mondo con le tecnologie già esistenti.”
In sintonia con questi ed altri studi, si succedono gli appelli per una rapida eliminazione dei combustibili fossili.
Tra gli altri il prof. Anthony Ingraffea, docente presso la Cornell University, membro del Consiglio di amministrazione di EarthWorks 15, che ha svolto lunghe e qualificate attività di ricerca per l’industria petrolifera e del gas dal 1984 al 2001, si è espresso sulla necessità di favorire una solida ricerca scientifica indipendente su tali impatti ed ha dichiarato recentemente che per evitare catastrofici cambiamenti climatici, dobbiamo abbandonare immediatamente tutti i combustibili fossili a favore della conservazione e delle energie rinnovabili”.
I danni che progetti come quello in esame possono determinare a causa dei cambiamenti climatici sono contenuti in qualificati studi previsionali, e sono ormai riscontrabili in tutto il mondo. Gli stessi ricercatori del NOAA, insieme a colleghi dell’Università del Wisconsin di Madison, hanno preso in esame 40 anni di dati satellitari 16, concludendo che, a causa dell’aumento di temperatura superficiale dei mari, uragani, tifoni e cicloni in tutto il mondo stanno diventando sempre più potenti e mortali, con tempeste che riescono più facilmente a raggiungere la categoria 3 con venti superiori a 160 Km/h.
In questo contesto, insistere nella diffusione delle fonti fossili – quando sussistono valide alternative con fonti pulite – più che una scelta energetica sbagliata ed in controtendenza con gli scenari energetici mondiali, appare come un grave atto di irresponsabilità e di disprezzo per l’intera umanità.
L’osservatorio atmosferico di NOAA 17a Mauna ha registrato il 1° gennaio 2019 la quarta crescita annuale più alta nella concentrazione di CO2 in 60 anni di tenuta dei registri (diagramma seguente), arrivando a 410 ppm.


Ciò significa che, invece di diminuire, le emissioni stanno aumentando (grafico seguente)18, e che dovremmo da subito tagliare le emissioni di gas serra a livello mondiale di oltre un miliardo di tonnellate di CO2 all’anno, mentre abbiamo bisogno di un grande balzo delle fonti rinnovabili, che dovrebbero coprire tra il 70% e l’85% della domanda mondiale di elettricità entro il 2050.


In questo quadro allarmante, il metano ha un duplice effetto negativo sui cambiamenti climatici. Da un lato, le immissioni dirette in atmosfera di questo gas, che ha un effetto serra molte decine di volte superiore alla CO2, a seguito dell’estrazione e della manipolazione del gas. I dati rilevati nella produzione nazionale di gas serra, come appresso riportato, confermano queste conclusioni. A prescindere dal tipo di calcolo degli effetti del metano e della sua combustione sulle emissioni di gas serra, resta il fatto inoppugnabile, come si argomenterà appresso, che la politica di sostituzione del carbone con gas nelle centrali termoelettriche nazionali sta contribuendo ad un aumento, invece che una diminuzione, delle emissioni di CO2, in palese violazione delle direttive comunitarie.
Il Parlamento europeo ed il Consiglio dell’Unione Europea hanno individuato come obiettivo fondamentale dell’Unione (vedasi Regolamento UE 2018/1999) quello di “preservare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente e di promuovere l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, in particolare promuovendo l’efficienza energetica e i risparmi energetici e sviluppando nuove forme di energia rinnovabile.” Nelle conclusioni del 23 e 24 ottobre 2014 il Consiglio Europeo ha approvato un quadro dell’UE al 2030 delle politiche per l’energia ed il clima, basato su 4 obiettivi, tra cui la riduzione di almeno il 40% delle emissioni di gas a effetto serra nel sistema economico rispetto ai livelli del 1990, oltre a un contributo delle fonti rinnovabili al 32%; tale obiettivo è stato formalmente approvato dal Consiglio del 6.03.2015, quale contributo UE all’accordo di Parigi del 2015, nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ed è entrato in vigore il 4.11.2016;
L’accordo di Parigi ha reso più ambiziosi gli obiettivi relativi ai cambiamenti climatici, onde mantenere l’aumento della temperatura mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e limitare tale aumento a 1,5°C. In tale quadro assume rilevanza fondamentale limitare le emissioni di gas a effetto serra, tra cui la CO2, con uno scenario che prevede l’azzeramento delle emissioni nette dei gas ad effetto serra entro il 2050. La Direttiva prevede quindi che “l’Unione e gli Stati membri dovrebbero pertanto collaborare con i loro partner internazionali al fine di garantire che tutte le parti dell’accordo di Parigi mantengano un livello elevato di ambizione rispetto agli obiettivi a lungo termine stabiliti.” I piani nazionali integrati per l’energia ed il clima (di cui si tratterà in apposito paragrafo) dovrebbero quindi convergere in tale direzione.
Nell’Allegato V, parte 2, del Regolamento in esame, sono citati i “gas ad effetto serra da prendere in considerazione” in tema di emissioni di gas a effetto serra. Al primo posto il biossido di carbonio (CO2), gas invece poco valutato nel contesto nel progetto in esame. Carenza inaccettabile, che tra l’altro espone l’Italia, nel contesto di una politica energetica ancora nostalgicamente rivolta alle fonti fossili, ad una serie di possibili contestazioni in sede UE in relazione agli obblighi relativi alla comunicazione di dati sulle emissioni antropogeniche di gas a effetto serra (Allegato V del Regolamento). In particolare, ai sensi della citato Regolamento gli Stati membri sono tenuti a seguire le linee guida IPCC 2006 per gli inventari nazionali dei gas a effetto serra, facendo riferimento allo specifico indicatore “Emissioni specifiche di CO2 di centrali termoelettriche pubbliche” (Parte 3).
Le politiche energetiche messe in campo dall’Italia in tale quadro (il progetto in esame ne è un esempio emblematico), al di là di astratte enunciazioni di principio, appaiono insufficienti ai fini del raggiungimento degli obiettivi, mentre non mancano le contraddizioni.
InfluenceMap, organizzazione no-profit con base a Londra, ha pubblicato recentemente un rapporto su otto grandi associazioni industriali europee, tra cui BusinessEurope, di cui fa parte Confindustria, (che ha avuto uno dei punteggi peggiori in tema di lotta ai cambiamenti climatici), rivelando come la maggior parte delle lobby dal 2015 ad oggi ha continuato ad opporsi agli obiettivi fissati in sede UE e negli accordi di Parigi sul clima.
Il Rapporto ISPRA 257/2017 “Fattori di emissione atmosferica di CO2 e altri gas a effetto serra nel settore elettrico” (tabella seguente) mostra come il contributo del gas naturale alle emissioni di CO2 nel settore termoelettrico in Italia (per la sola produzione di energia elettrica) abbia superato dal 2015 quello dei combustibili solidi, con 40,5 Mt CO2 (43,2%), superamento confermato nel 2016 con 41,5 Mt (43,2%), e che complessivamente le emissioni nel settore siano aumentate negli ultimi anni (90,1 Mt nel 2014, 93,6 Mt nel 2015, 96 Mt nel 2016), pur in un contesto sostanzialmente stazionario dei consumi (301.880 Gwh nel 2017, 295.508 GWh nel 2016, 297.179 GWh nel 2015, 291.083 GWh nel 2014) e della produzione elettrica (totale produzione lorda 2017 295.830 GWh, di cui 200.305 Gwh da produzione termoelettrica tradizionale, e rispettivamente 289.768/199.429 GWh nel 2016, 282.994/192.053 GWh nel 2015, 279.828/176.171 GWh nel 2014). Un aumento del 6,5% delle emissioni di CO2 nel biennio 2014-2016 nel settore termoelettrico, a fronte di un incremento dei consumi nello stesso periodo dell’1,5%, mostra, oltre alla inadeguata politica di copertura dei fabbisogni, ancora schiacciata sulle fonti fossili tradizionali e con efficienze limitate, anche una fallimentare strategia di contrasto ai cambiamenti climatici ed all’effetto serra: la sostituzione del carbone con il metano, insieme ad una scriteriata programmazione di nuove produzioni fossili, porta l’Italia ad aumentare le emissioni di CO2 nel comparto.
Rilevazioni più recenti confermano sostanzialmente questa “dissociazione” italiana tra obiettivi da raggiungere e risultati concreti. Nel 2018 le emissioni complessive di gas serra in Italia sono salite dello 0,2% rispetto al 2017, mentre le emissioni legate alla produzione di energia mostrano una modesta contrazione del 2,1%, dovuta in gran parte alla riduzione dei consumi. E’ evidente come la sostituzione del carbone con il gas non stia portando ai risultati richiesti dai drammatici cambiamenti climatici.
I risultati di tale politica sono evidenti anche nei dati più recenti. Nel 2019 in Italia le emissioni di gas serra sono ridotte di un misero 1% circa rispetto all’anno precedente, pur avendo cambiato sostanzialmente il mix nelle centrali elettriche con un -30% di carbone e +15% di gas. Lo stesso Enea attesta l’inadeguatezza di questi risultati ed il fallimento di questa politica ambientale: “In assenza di una crescita più sostenuta delle fonti rinnovabili e dell’efficientamento energetico, ciò non basta a garantire il raggiungimento degli obiettivi del Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) e la transizione verso un’economia low carbon 19
Si noti che parallelamente in Italia, a causa di questa dissennata politica poco restia ad abbandonare con la dovuta determinazione le fonti fossili, il contributo delle nuove fonti rinnovabili alla domanda elettrica sta diminuendo (Fonte: Redazione QualEnergia, 1.02.20199).
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Si tenga presente che nel 2018, il contributo globale delle FER è passato al 35,1% solo grazie al vigoroso incremento dell’idroelettrico, passato da 2.282 del 2017 a 3.576 GWh del 2018, mentre le variazioni di tutte le altre fonti pulite hanno avuto un segno meno (Fonte: Terna).

L’Italia quindi, pur di fronte a ambiziosi obiettivi di contrasto all’effetto serra, che imporrebbero programmi coraggiosi e ambiziosi, sta agendo di fatto contro le direttive europee, incrementando le emissioni di CO2 nel settore termoelettrico e riducendo il contributo delle FER, penalizzate fortemente con lucida determinazione dagli indirizzi degli ultimi governi.
Per effetto di queste politiche il contributo assoluto delle fonti rinnovabili nel settore elettrico registra nel 2018 un valore assai inferiore al 2014, a fronte di un aumento stazionario o in leggero aumento del consumi elettrici 20

In particolare il progetto in questione, proponendo un massiccio ricorso al metano, pericoloso gas serra, ed in netta contrapposizione strategica con la promozione delle fonti rinnovabili, pur in presenza di scelte alternative più rispettose dell’ambiente nonché più vantaggiose per il sistema economico e per la spesso citata a sproposito “economia green”, a parità di soddisfacimento dei consumi, come si vedrà appresso, si pone in un contesto di aperto contrasto alle direttive europee, che indicano invece l’esigenza di una transizione decisa e rapida alle fonti rinnovabili e l’abbandono urgente delle fonti fossili, metano compreso, ed espongono l’Italia a motivate contestazioni ufficiali per violazione degli indirizzi comunitari.

5. DIFFORMITA’ DAL PIANO NAZIONALE INTEGRATO ENERGIA E CLIMA (PNIEC)

Questo importante documento di programmazione, strumento fondamentale nell’attuazione delle politiche europee, “identifica politiche e misure nazionali per ottemperare agli obiettivi vincolanti europei al 2030 in tema di energia e clima nell’ambito del “Quadro 2030 per le politiche dell’energia e del clima”. Esso prevede al 2030 un contributo delle fonti rinnovabili del 30% sui consumi finali lordi di energia, una riduzione dei consumi di 9 Mtep ed un taglio dei gas serra per i settori non ETS (sistema di scambio delle quote di emissione) del 33% rispetto al 2005. Le nuove norme in materia di Effort Sharing e di ETS adottate dalla UE nel corso del 2018 (Regolamento 2018/842/UE e Direttiva 2018/410/UE) pongono per l’Italia un obiettivo di riduzione delle emissioni soggette al regolamento Effort Sharing del 33% rispetto ai livelli del 2005, mentre rimane l’obiettivo di tutti i settori soggetti, comprese le industrie energetiche, di riduzione delle emissioni del 43%.
In questa prospettiva il Piano prevede:
  • ulteriori 30 GW di fotovoltaico rispetto ai 20 GW già in esercizio, con “impianti che utilizzano prioritariamente coperture dei fabbricati e aree a terra compromesse, in linea con gli obiettivi di riduzione del consumo di suolo”;
  • un “importante sviluppo di sistemi di accumulo, … sia di pompaggio idroelettrico che elettrochimici”;
  • una “riduzione della dipendenza dalle importazioni di energia da paesi terzi”;
  • un ”incremento di flessibilità del sistema energetico”;
  • la “capacità di affrontare restrizioni o interruzioni di approvvigionamento di una fonte energetica”.
Il Piano riporta correttamente diverse criticità legate agli obiettivi di “decarbonizzazione dei settori di uso finale con la sostituzione di vettori energetici emissivi”, con una tendenza in palese contrasto con le direttive comunitarie e nazionali; infatti:
  • a fronte di consumi elettrici totali sostanzialmente stabili o in lieve diminuzione (295.508 GWh nel 2016, -0,5% rispetto al 2015), la produzione termoelettrica lorda tradizionale aumenta sensibilmente (192.053 GWh nel 2015, 199.429 GWh nel 2016, +3,8%) 21; il maggior incremento della produzione lorda nazionale nel 2016 rispetto all’anno precedente si è avuto proprio nella produzione termoelettrica da gas naturale (+15 TWh, +13,8%), che ha quasi bilanciato la ridotta produzione di energia elettrica da carbone (-17,6%);
  • la produzione fotovoltaica subisce uno stallo (-3,7% nel 2016 rispetto al 2015), frutto evidentemente delle politiche governative degli ultimi anni, fortemente compressive e penalizzanti nei confronti di questo settore in particolare; è di tutta evidenza che, salvo drastiche e per ora non percepibili inversioni di tendenza, con l’attuale quadro normativo e di programmazione incerto, l’obiettivo di 50 GW al 2030 (ulteriori 2500-3000 MW all’anno) appare poco più di una chimera.
Considerando i dati registrati negli ultimi anni, prima riportati, è di tutta evidenza come tali obiettivi richiederebbero programmi organici ed ambiziosi tesi da un lato alla maggiore penetrazione delle fonti rinnovabili, al momento pressoché assenti, se si prescinde da limitate e timide agevolazioni fiscali, dall’altro una forte azione di sostituzione dei combustibili fossili, metano compreso, che invece viene promosso quale ipotetico e fuorviante “combustibile di transizione”.
E’ similmente evidente come il progetto in esame , contribuendo ad una inefficace ed inadeguata campagna nazionale di sostituzione del carbone con gas naturale, si porrebbe in contrasto con gli obiettivi del PNIEC.

6. IMPATTI NEGATIVI DELLE CENTRALI A METANO RICONOSCIUTI DAL PNIEC

Lo stesso Piano Integrato Nazionale Energia e Clima citato riconosce le possibili ricadute negative delle centrali termoelettriche a gas metano su alcune componenti ambientali. Nella Tabella sotto riportata dei “Potenziali impatti ambientali tra le tecnologie implementate e vettori energetici in attuazione del PNIEC e Temi Ambientali Evoluzione fisica dei suoli e qualità dei suoli22 si riconosce un “rischio diretto” (D) sul rischio di “suscettibilità del suolo alla compattazione” ed un “rischio indiretto” (I) sulla “presenza di carbonio organico negli orizzonti superficiali dei suoli”.



Tale riconoscimento, unito alla taglia della centrale in conversione (1.680 MWe), rende necessaria una verifica attenta degli impatti ambientali.


CONCLUSIONI

La politica energetica perseguita dai maggiori operatori elettrici italiani, ancora fortemente condizionati dagli interessi legati alle fonti fossili, è chiara quanto contraddittoria: si continua ad enfatizzare il ruolo “non programmabile” e “intermittente” delle fonti rinnovabili, ma poi si evita accuratamente di assumere quegli indirizzi legislativi ed applicativi che potrebbero dare una maggiore programmabilità alle produzioni pulite e conseguentemente una maggiore stabilità alla rete.
Al contempo si continua ad investire sulle fonti fossili, sordi ai tanti appelli che giudicano urgente e necessario un drastico cambio di indirizzi.
Nello specifico, la scelta di localizzare alla Spezia un nuovo impianto termoelettrico a gas, nell’ambito dell’attuale politica energetica nazionale, è inaccettabile e contraddittoria sulla base delle considerazioni che seguono:
a) non si avrebbe, per quanto detto, alcun effetto benefico generale e locale sui cambiamenti climatici, a seguito della sostituzione del carbone con gas, ma si continuerebbe la corsa insensata e forsennata verso la catastrofe ambientale;
b) si confermerebbe l’obsoleto modello energetico attuale basato sulle fonti fossili e sulla produzione accentrata, invece di virare decisamente verso la produzione distribuita e le fonti rinnovabili;
c) resterebbe ingiustificato, per una presunta esigenza di stabilità della rete, il ricorso a centrali turbogas che sono della stessa sostanziale tipologia di quelle che contemporaneamente si dismettono in altre parti d’Italia da parte della stessa Enel, in quanto costose e poco competitive rispetto agli impianti a fonti rinnovabili;
d) si continuano a ignorare o sottovalutare tutte le tecnologie legate alle fonti rinnovabili in grado di conferire una maggiore programmabilità alle produzioni ed un maggiore equilibrio della rete, come gli accumuli elettrochimici e gli accumuli a sali fusi;
e) si continua a ignorare l’improrogabile esigenza di attuare idonee ricerche e investimenti nelle smart grid, settore che accusa inquietanti ritardi, in modo da predisporre le reti per un maggior apporto di fonti rinnovabili e per un più efficace scambio di servizi tra produttori e gestori di rete.

In conclusione, il progetto in esame appare frutto sostanzialmente di valutazioni di tipo “geopolitico” piuttosto che tecnico-economiche, e destinato ad alimentare gli appetiti di un apparato che è riuscito finora a conservare i privilegi di tipo oligopolistico, evitando di confrontarsi con tendenze e scenari ormai affermati a livello mondiale.
Il vantaggio strategico delle produzioni rinnovabili di avere dei costi marginali di produzioni tendenti allo zero, con un approvvigionamento riveniente dalle stesse risorse naturali e sganciato dai delicati equilibri geopolitici e dalle incertezze del mercato fossile, non tarderà a mandare fuori mercato tutte le centrali alimentate da fonti fossili, in un orizzonte temporale che però dipende dalle resistenze alla introduzione di modelli energetici innovativi e dagli investimenti che verranno fatti in questa direzione. Sotto questo aspetto la scelta di introdurre alla Spezia nuovi gruppi turbogas, per i motivi prima esposti, appare poco più di un colpo di coda derivante da nostalgie delle fonti fossili, destinato ad essere contraddetto dai fatti.




Osservazioni allo Valutazione di Impatto Sanitario

A pagina 13 del documento generale di Valutazione di Impatto Sanitario si evidenzia, attraverso dei dati riportati in tabella, come il progetto apporterà delle significative riduzioni di emissione di gas in atmosfera, in particolare dalla fase 1 (turbina a gas) e addirittura dalla fase 2 (turbina a vapore). Questi dati possono essere letti in maniera significativa rispetto alla situazione esistente, dove l'esercizio della centrale avviene tramite carbone e olio combustibile.
Non sono dati accettabili invece come condizioni generale di lotta ai cambiamenti climatici e di abbassamento delle emissioni, come sopra riportato in premessa; l'emissione di 30 mg/mc di Nox (poi 10 nella fase 2) e di 30 mg/mc di CO2 (sia nella fase 1 che nella fase 2) sono limiti che non attengono agli obbiettivi di riduzione della CO2 che l'Unione Europea e lo stesso accordo di Parigi contemplano. Considerato che, una volta ottenuta l'AIA la centrale potrà operare per moltissimi anni, siamo notevolmente oltre ogni impegno di lotta ai cambiamenti climatici.
Nella tabella a pagina ? si dice che "l'analisi modellistica ha evidenziato l'ampio rispetto limiti da D.Lgs. 155/2010 sia nello scenario attuale che in entrambe le fasi di progetto". Sarebbe opportuno conoscere perché si evidenzi un "ampio rispetto" e non il "totale rispetto" come ci si aspetterebbe.
Così come ci chiediamo come mai nella tabella su "ambiente idrico", acque superficiali, acque sotterranee, suolo e sottosuolo, ci sia una sostanziale previsione ottimistica dell'impatto sugli scarichi.
Sempre nella tabella, al passaggio sulla biodiversità stupisce che si affermi che nell'area vi sia assenza di valenze dal punto di vista floristico e vegetazionale, e come si affermi in maniera perentoria che non vi sia "sottrazione di habitat faunistico né di ecosistemi connessi con l'occupazione di suolo. In realtà non è così, le valenze esistono tant’è completamente valutata la presenza nelle vicinanze di una emergenza naturalistica rappresentata dalla rana ........ che, pur non essendo SIC (ora ZSC) è compresa comunque nell'atlante della biodiversità della Regione Liguria.
Le stesse convinzioni ottimistiche sono comprese nelle parti della tabella che attengono al tema "paesaggio" e incredibilmente al passaggio sulla "salute pubblica" dove si afferma "essendo attese riduzioni di impatto per entrambe le componenti, non è prevedibile alcun impatto significativo per la salute pubblica”.
A pag 63, la VIS riconosce che, per quello che riguarda La Spezia vi è un discostamento tra il dato nazionale e quello locale per quello che riguarda i disturbi respiratori e le patologie cardiovascolari, attribuendoli però ad un allucinante "rumore di fondo" per poi degenerare a pag 65 dando la colpa di questi dati epidemiologici a fumo alcool ed obesità, fattori senz'altro presenti ma che non spiegano completamente la situazione data.
Manca poi, in tutta la VIS, una valutazione su come i nuovi livelli di emissione andranno accumularsi con altre sorgenti inquinanti presenti nel territorio spezzino. Oltre al citato Studio Sentieri, relativo al Siti di Interesse Nazionale di Bonifica, relativo al sito di Pitelli, ora diventato Sito di Interesse Regionale, non vi è nulla in relazione a sorgenti inquinanti come: attività portuali, movimentazione merci e containers, porto e cantieri navali, contributo del traffico veicolare, altre forme di inquinamento di origine industriale e civile. Per cui la sopracitata VIS è carente in quanto evidenzia e modella un solo scenario che è quello della futura centrale a gas ma nulla dice in riferimento agli impatti cumulativi.




Osservazioni generali allo Studio di Impatto Ambientale e allegati


A pag. 103 dello Studio di Impatto Ambientale, punto 2.5.2 si fanno alcune valutazioni in merito al Piano Regolatore Portuale del Porto della Spezia. Nel fare considerazioni di questo tipo, giuste per visionare l’assieme delle (manca una parola?) ci si spinge ad affermare che il progetto “in tal senso il progetto di conversione dell’impianto non è incompatibile rispetto alle previsioni di sviluppo del PRP” dimenticandosi di aggiungere che tale strumento pianificatorio nulla dice e nulla può prevedere per questo tipo di attività, che non ricadono peraltro nel territorio di competenza dell’Autorità Portuale stessa, oggi Autorità di Sistema Portuale Mar Ligure Orientale.
A pag. 108 dello Studio di Impatto Ambientale, punto 2.5.4 “Coerenza del progetto con il piano urbanistico comunale” nello specchietto successivo si scrive correttamente che l’intervento è in contrasto con la variante al PUC in itinere, ma si indica la causa scorrettamente “in quanto nell’area della Centrale e del Carbonile Est sono esclusi impianti di produzione di energia”. A questo bisogna aggiungere “ da fonti fossili”.
A pag 138 dello Studio di Impatto Ambientale, nel punto 3.3.1 si considerano le alternative di progetto ma sono tutte incentrate sulla sola produzione elettrica tramite gas, e si considera come alternativa la sola “Alternativa zero”. In realtà andrebbe fatta una comparazione con ipotesi di produzione tramite rinnovabili, e più in generale sulle possibili ricadute, anche occupazionali, del riuso complessivo dei 70 ettari occupati dalle attività della centrale.
I livelli di emissione previsti dal progetto in esame sono correlati a quanto autorizzato e autorizzabile, ma non prendono minimamente in considerazione altre possibili fonti di emissione, come le emissioni fuggitive, non fornendo nessun contributo all’obbiettivo, indicato dalla Unione Europea, della “neutralità climatica zero” ed hanno un limite aggiuntivo legato all’ipotesi, più che concreta, che non si porti a compimento la seconda fase di progetto a ciclo chiuso di cui, come abbiamo evidenziato, ENEL stessa parla, ad esempio attraverso lo studio di impatto sanitario, di “potenziale funzionamento in ciclo chiuso (CCGT). Le emissioni fuggitive, sono significative per quel che riguarda il metano, gas climalterante.
La combustione del gas naturale comporta il rilascio in atmosfera anche di metalli pesanti: zinco, bario, vanadio, nichel, cromo, cadmio, piombo, mercurio; questo soprattutto in relazione ai notevoli volumi di combustibile bruciato.
Una centrale NGCC da 800 MW può bruciare una quantità di combustibile di circa un miliardo di metri cubi/anno.
Tra gli altri inquinanti non dichiarati, vi è il gas metano (principale componente del gas naturale), che viene rilasciato da perdite ineliminabili dalle condotte che lo trasportano alle turbine (1,4%).
Il metano è un gas ad effetto serra, più potente della CO2. La formaldeide, anche precedentemente citata, è un pericolosissimo cancerogene.
Tra gli “altri idrocarburi”, presenti nelle emissioni, giocano un ruolo rilevante il benzene (cancerogeno) e altri idrocarburi aromatici e non, tossici o cancerogeni.


Emissioni in atmosfera stimate per una centrale Ngcc da 780 MW che produce 4.670 GWh/anno
Inquinante                                       Quantità (t/anno)
Anidride carbonica, CO2                    2.050.000
Ossidi di azoto, NOx                               2.700 
Particolato                                                   620  
Ossidi di zolfo, SOx                                 1.500 
 Metano, CH4                                         13.000 
 Monossido di carbonio, CO                  1.350 
 Benzene                                                       300
Altri idrocarburi                                      2.900 
 Formaldeide, CH2O                                    42
A pag 128 dello Studio di Impatto Ambientale si afferma che la realizzazione del progetto di nuova centrale permetterà “l’azzeramento di emissioni di SO2 e polveri”. Ebbene c’è da dubitare su questo, soprattutto per il tema polveri perché, se in linea del tutto teorica la combustione del gas metano non genera polveri, bisogna sapere, in modo sperimentale e non teorico, che sono disponibili le seguenti misure effettuate su centrali a turbo gas sia da Arpa sia da altri laboratori certificati come da tabella sopra riportata. (tabelle di N. Armaroli e C. Po, entrambi CNR, pubblicate sulla rivista "Chimica e Ambiente).
Tutti i dati, ad oggi acquisiti, indicano valori di concentrazioni inferiori a 1 mg/Nm3 per le polveri, ma non l’assenza di polveri.
I dati sono ben differenti nel ciclo aperto, e andrebbero valutati in una corretta analisi quali-quantitativa che tenga conto della potenza in esercizio fuori scala programmata, e della significativa presenza di elementi bioaccumulabili.
E’ opportuno sottolineare che alcuni inquinanti come l’ossido d’azoto , sono precursori di ozono (gas velenosi per l’uomo, gli animali e le piante). La reazione di formazione è complessa e richiede, sia la presenza di sostanze organiche volatili in atmosfera, di varia provenienza, sia la luce solare; si tratta cioè di un processo fotochimico. L’incidenza di questo processo risulta particolarmente importante nelle ore centrali delle giornate estive, quando l’irraggiamento solare raggiunge la massima intensità.
Un altro dato preoccupante che riguarda le emissioni è la cosiddetta “portata dei fumi” in cui si evince che, rispetto alla situazione attuale (funzionamento a carbone del gruppo SP3) in cui, con “fumi secchi al 6% di O2” il valore complessivo è di 2,15 x 106 Nm3/h, con la configurazione finale della centrale a gas tale valore, riferito a “fumi secchi al 15% di O2” quasi raddoppia : 4,15 x 106 Nm3/h.
Per quello che riguarda lo scarico delle acque rileviamo che durante la vertenza Enel-Comune della Spezia fu commissionata una perizia allo studio Finzi Contini che mise in luce l’enorme impatto che lo scarico termico dell’acqua di raffreddamento produce nel Golfo della Spezia, addirittura quantificando il danno in svariati miliardi di lire.
Lo scarico termico altera il metabolismo degli organismi, altera la stratificazione dell’acqua di mare determinando situazioni di anossia sui sedimenti. Inoltre l’uso di biocidi per uccidere le larve degli organismi incrostanti (fouling) uccide anche le larve di mitili (Mitylus galloprovincialis) allevati nel Golfo spezzino fin dalla seconda metà dell’800. Inoltre i biocidi determinano una sottrazione di ossigeno aumentando BOD e COD, contribuendo ad una drammatica cascata di eventi che porta a crisi distrofiche soprattutto nel periodo estivo.
I mitilicoltori spezzini lamentano da anni e anni, complice il progressivo mutamento del Golfo, un peggioramento delle condizioni di allevamento, soprattutto relativamente alla fase di raccolta del seme spontaneo, verosimilmente dovuto all’uso massiccio di biocidi.
Si sottolinea poi che al paragrafo 4.4.2 Fauna, ecosistemi e rete ecologica, tra le fonti bibliografiche consultate, pur citando il livello “Rete ecologica” della banca dati Biodiversità della Regione Liguria, non si evidenzia una componente significativa. In questa banca dati infatti viene indicata la presenza, all’interno dell’area di pertinenza dell’attuale centrale, di una stazione Area Nucleo per quanto attiene la specie Rana dalmatina che, come citato anche nello SIA stesso, è ricompresa come specie nell’Allegato IV della Direttiva Habitat, richiedendo quindi una protezione rigorosa (nello specifico questa specie viene indicata con status di conservazione inadeguato e in peggioramento).
Riteniamo che la mancanza di un approfondimento su tale elemento infici l’adeguatezza dello SIA riguardo la componente faunistica e non solo, in quanto la presenza di un’Area Nucleo è indicatrice anche di un habitat confacente al mantenimento di questa funzione.


Realizzazione dell’impianto in due fasi

La realizzazione dell’impianto viene indicato in due fasi, ciclo aperto, OCGT (vero obiettivo della nuova centrale per poter accedere al meccanismo del Capacity market”) e solo successivamente il ciclo chiuso (CCGT) che potrebbe essere anche non realizzato, se cambieranno le condizioni di base per la richiesta di energia.
Si stima che la costruzione dellimpianto dovrebbe avvenire in quattro anni e mezzo, ai quali vanno aggiunti i tempi necessari per lacquisizione di tutte le autorizzazioni previste (almeno un anno). Si osserva che la progressiva accelerazione del cambiamento climatico e le conseguenti politiche europee e nazionali per tentare di arginare il fenomeno, saranno orientate, nei prossimi anni, a penalizzare il ricorso ai combustibili fossili, privilegiando, anche con il ricorso a meccanismi sanzionatori sulle emissioni di CO2 (carbon tax), la produzione energetica da fonti rinnovabili, efficientamento energetico e sistemi di accumulo (Storage). Si intravvede il rischio di realizzare un impianto industriale obsoleto e fuori mercato già al momento dellentrata in esercizio.












Conclusioni

Per i motivi succitati, come da premessa e dalle altre considerazioni, le scriventi sigle ritengono che il progetto di costruzione di una centrale a turbogas, realizzata in due fasi (ciclo aperto OCGT , ciclo chiuso CCGT) sia da respingere.

Con i più cordiali saluti

Per Associazione Posidonia
Gabriella Reboa

Per Italia Nostra sezione spezzina
Luca Cerretti

Per Lipu La Spezia
Paolo Canepa

Per Legambiente La Spezia
Stefano Sarti

Per V.A.S. La Spezia
Franco Arbasetti



La Spezia 14 Luglio 2020












1 Massimo Falchetta, Enea: Fonti rinnovabili e rete elettrica in Italia, documento RT/2014/8/ENEA
2 www.terna.it/it/sistema-elettrido/statistiche/evoluzione-mercato.elettrico
3 Da Casa&Clima.com su stime Anie Rinnovabili, 1.01.2019
4 Osservatorio Anie Rinnovabili, gennaio 2020
5 Redazione QualEnergia, articolo “Costi più che dimezzati e boom di nuovi impianti: gli accumuli con batterie non si fermano più”, 1.08.2019
6 www.terna.it/it/sistema-elettrico/statistiche/evoluzione-mercato-elettrico.
7 Vedasi in proposito la Deliberazione dell’Autorità per l’energia del 25.01.2010 ARG/elt 5/10 sulla remunerazione della mancata produzione eolica.
8 GME, Gestore del Mercato Elettrico, 17.06.2013
9 Redazione Quale Energia, 16.10.2016
10 Assessment of methane emissions from the U.S. oil and gas supply chain, di Ramon A. Alvarez, Daniel Zavala-Araiza, David R.Lyon, David T. Allen, Zachary R. Barkley, Adam R. Brondt e altri;
Science, 13 luglio 2018, Vol. 361, Issue 6398, pagg. 186-188,
11 Financial Times, Ed. Crooks a New York, 21.06.2018
12 Scienzainrete, 7.06.2017
13 Si riporta un rapido calcolo, in ordini di grandezza, per stimare il contributo delle perdite di gas all’effetto serra. Assumendo per il gas un fattore di conversione di 56 gCO2/MJ e per il carbone di 95 gCO2/MJ, un potere calorifero superiore del gas di 39,9 MJ/mc con una densità di 0,68 kg/mc, avremo:
Quantità di gas necessaria per produrre 1 MJ nella combustione:
1 mc : 39,9 MJ = 0,025 mc/MJ, pari a 0,025 x 0,68 = 0,017 kg/MJ = 17 g/MJ di gas naturale.
Una perdita specifica del 3% (ordine di grandezza) significherebbe ulteriori 17 x 0,03 = 0,51 g/MJ di gas.
Assumendo una equivalenza ai fini dell’effetto serra di un fattore 72 tra gas naturale e CO2 (su un orizzonte temporale di 20 anni), il contributo aggiuntivo delle perdite all’effetto serra sarebbe:
0,51 g/MJ x 72 ~ 37 gCO2/MJ (contributo delle perdite);
che sommati ai 56 gCO2/MJ citati legati alla combustione, portano il contributo del gas naturale a (56+37) ~ 93 gCO2/MJ, tali quindi da annullare sostanzialmente il beneficio della sostituzione del carbone con il gas.
14 Disponibile sul sito Science Direct.
15 Organizzazione internazione che promuove campagne per proteggere le comunità dagli impatti dell’estrazione di petrolio e gas
16 Reccom.org, Fabiana Leoncavallo, 20.05.2020
17 Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica, Dipartimento di commercio degli Stati Uniti
18 Redazione QualEnergia, 29.09.2017
19 Dal Enea.it/Stampa, Comunicato del 19.12.2019
20 Fonte: Redazione QualEnergia, 1.02.2019.
21

Fonte: Terna, Bilanci energia elettrica 2016 e 2015)

22 Rapporto preliminare ambientale, pag. 59

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