Il
titolo esatto del Protocollo d’Intesa citato nell’articolo
precedente è Protocollo
di Intesa per la valorizzazione dell’isola Palmaria.
Il
già citato articolo 2 comma 3, ai punti c e d prevede di:
“c)
contribuire alla valorizzazione dell’isola Palmaria nell’ambito
di un progetto pilota che sia fortemente basato sulla presenza
storica,culturale e materiale, della Marina Militare;
d)
favorire il processo di valorizzazione dell’isola Palmaria quale
esempio di sviluppo sostenibile di un bene di grande valore storico,
culturale, ambientale e paesaggistico;”
Con
questo secondo articolo vogliamo analizzare l’origine e l’uso
divenuto ormai consueto di questo termine, valorizzazione, il cui
significato abbiamo più volte stigmatizzato con l’equivalenza
“valorizzazione = monetizzazione”.
Nel
2004 fu approvato il Codice dei Beni Culturali che all’articolo 6
definisce la valorizzazione come quel processo che dovrebbe
promuovere la conoscenza del patrimonio culturale italiano e
assicurarne le migliori condizioni di fruibilità allo scopo di
favorire lo sviluppo della cultura.
Da
subito però il termine ha assunto una connotazione economica,
andando di pari passo con la mercificazione dei
beni culturali e naturali, e
questa visione si è talmente consolidata negli anni nella politica
italiana da divenire oggetto di studio e di ricerca anche all’estero.
Alice
Borchi, ricercatrice e docente presso l’università di Leeds, in un
articolo pubblicato nel marzo 2019 sulla rivista Emerald Insight dal
titolo “Petrolio,
oro, sassi: valore della cultura nella politica
culturale
italiana”
ripercorre l’involuzione del valore attribuito alla cultura dalla
politica italiana negli anni tra il 2008 e il 2018. Scrive: “Il
titolo di questo articolo si riferisce a tre metafore che hanno
caratterizzato il dibattito sul valore della cultura in Italia: la
cultura e le arti come “petrolio d'Italia” o “oro d'Italia”,
vale a dire, una fonte molto remunerativa di profitto che ha solo
bisogno di essere adeguatamente scavata, confezionata e
commercializzata. Dall'altra parte di questo discorso, c'è l'idea
dei “quattro sassi”, una descrizione sprezzante di un sito del
patrimonio fatta da un governatore regionale nel 2010. … Queste due
idee sul valore culturale potrebbero apparire opposte, ma
appartengono alla stessa convinzione che il valore della cultura
equivalga al suo valore economico”. (Il
sito è quello di Pompei e il governatore è Luca Zaia, Veneto)
Il
termine valorizzazione ha perso via via il suo significato originario
e sempre più spesso “è
stato usato anche per descrivere il processo di sfruttamento
economico dei beni culturali ed è diventato sempre più evidente
come il concetto di cultura come “petrolio d'Italia” sia
diventato un punto fermo nella politica culturale italiana.”
(Borchi,
Ibid.) In tempi recenti uno strenuo sostenitore dello sfruttamento
economico dei beni culturali è stato il Ministro Franceschini,
governo Renzi, che sosteneva che il Ministero dei Beni culturali
fosse un Ministero economico e che potesse essere assimilato al
Ministero del petrolio per i paesi arabi.
Sempre
di più quindi il concetto di valorizzazione è stato equiparato allo
sfruttamento economico. Questa visione, che nega il valore simbolico
e identitario del nostro patrimonio artistico, architettonico e
paesaggistico, viene contrabbandata come “modernità”. Come
sottolinea Borchi riprendendo un concetto ben sviluppato dal
giornalista Marco Damilano nel suo “Processo al nuovo”: “La
metafora della cultura come petrolio, pertanto, deve essere intesa
come simbolo di modernità. … L'attenzione alla “modernità” e
“novità” è tipica della retorica della politica italiana, come
analizzato dal giornalista Damilano;
tuttavia, ciò che viene presentato come “nuovo” spesso manca di
un progetto o specifica direzione, e alla fine non produce alcun
cambiamento tangibile”.
In
questi ultimi mesi ci sono stati tuttavia alcuni segnali che ci fanno
ben sperare. Una sentenza della Corte dei Conti, la n. 66/2019,
condanna Marcello Fiori, ex Commissario straordinario agli scavi di
Pompei, al pagamento dei danni, quantificati in 400.000 euro, per
aver realizzato nel sito archeologico opere finalizzate alla
“realizzazione
di messa in sicurezza e di salvaguardia ma anche di
valorizzazione
del patrimonio archeologico dell’area in questione”
attribuendo al termine “valorizzazione” un distorto significato.
Secondo la Corte dei Conti “la
valorizzazione …. era messa in relazione al conseguimento urgente
di sponsorizzazioni dalle quali acquisire risorse finanziarie”
necessarie
per la realizzazione degli interventi previsti.
Esaminando
il
quadro normativo relativo alla “valorizzazione” del bene
culturale la Corte coglie significative condizioni e limiti alla sua
attuazione e riprendendo la definizione del Codice dei Beni Culturali
sancisce che “deve
trattarsi di attività volte alla promozione della conoscenza del
bene culturale e a migliorarne la fruibilità pubblica; nel perimetro
delle attività di valorizzazione sono da ricomprendere anche la
promozione e il sostegno degli interventi di conservazione del
patrimonio, la cui tutela deve comunque essere al centro
dell’attività di valorizzazione…. In conclusione, la
valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero
“sfruttamento” dello stesso per fini di natura
imprenditoriale/commerciale, …. posto che il bene culturale, e
soprattutto quello archeologico che cristallizza e narra la nostra
storia, resta sempre il bene pubblico per eccellenza”.
“Quest’ultima
affermazione,
scrive Tomaso Montanari commentando la sentenza in un articolo
apparso su Il fatto quotidiano, “per
quanto lapalissiana per chi abbia letto anche solo di sfuggita
l’articolo 9 della Costituzione, è costantemente smentita dai
fatti, e rappresenterebbe di per sé un compiuto programma di
politica del patrimonio culturale”.
Gian
Antonio Stella su Il Corriere della sera si augura che questa
sentenza possa “far
passare finalmente la voglia, ai soprintendenti di manica troppo
larga, di dare la precedenza alle baracconate che odorano di soldi
invece che alla custodia del nostro immenso patrimonio”.
Il
“federalismo demaniale culturale” è stato introdotto con il
D.Lgs 85/2010 che ha come risultante la possibilità di stipulare
Accordi di valorizzazione tra Amministrazioni statali, centrali e
periferiche e Agenzia del Demanio. Il punto centrale di questa
riforma sta nella equiparazione di un bene culturale a una risorsa
sfruttabile. Non a caso non si parla più di patrimonio ma di beni
culturali, espressione che mette l’accento sul loro valore
economico, non più sul loro valore identitario.
Di
questo, dell’isola Palmaria, patrimonio storico e naturalistico,
tratteremo nel prossimo articolo.
Occorre contrastare con fermezza queste forme di speculazioni
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